“Non butto via niente ma rifiutai Pinocchio”
Guido Viale, l'ex leader sessantottino che ha abbracciato la «civiltà del riuso» appellandosi a Dickens, Pamuk, Franzen non dispera di recuperare il pezzo di legno di Collodi. Un nuovo saggio indaga l’anima degli oggetti: gli scarti evocano il rimosso della nostra società - da Tutto Libri de La Stampa del 29.05.2010
03 June, 2010
Alberto Papuzzi
Rigattieri e trovarobe, riparatori e aggiustatori, antiquariato e modernariato, il fascino delle cose vecchie che si pescano da un baule in soffitta, i vestiti riadattati, o ridotti, o rovesciati (da cui la bella espressione «è un altro paio di maniche», i rifiuti recuperati, o i rifiuti evitati, il vintage dei mobili, la fantasia di chi trasforma e reinventa arredi e suppellettili, e le cose di pessimo gusto o quelle fuori moda: c’è di tutto nel nuovo libro del leader sessantottino Guido Viale, La civiltà del riuso (Laterza, pp. 134, e14), meglio se questo tutto è vecchio, desueto, abbandonato. Come nei precedenti saggi dedicati a rifiuti e sprechi (Un mondo usa e getta, 1994, Tutti in taxi, 1996, Governare i rifiuti, 1999, Vita e morte dell’automobile, 2007), anche qui si parte da casi molto concreti che abbiamo sotto gli occhi nelle nostre città e nei quartieri, per aprire prospettive di cambiamenti futuri così radicali da apparire utopici. Ma approfittiamo dei meandri dei rifiuti e del riusato per esplorare il rapporto che intrattiene coi libri questo protagonista di una stagione spartiacque nella storia italiana, diventato un antropologo delle cose che si buttano.
«La civiltà del riuso» presenta una bibliografia sintetica ma sorprendente, perché accanto a autori in carattere con il tema, da Richard Sennett a Francesco Orlando, vi figurano testi che di primo acchito non penseresti di riferire alla cultura e ai problemi del riparare e riadattare, da Dickens a Pamuk, da “Se questo è un uomo” alle “Correzioni” di Franzen. Fra questi libri, o altri, quali hanno influenzata più da vicino il suo saggio?
«La cosa più intensa e appropriata è Come ho svuotato la casa dei miei genitori di Lydia Flem (Archinto 2005). E’ il libro che riesce meglio di tutti a mettere in luce il valore affettivo che gli oggetti vecchi hanno per noi. Dal punto di vista informativo è stato importante anche La seconda vita delle cose, una ricerca dell’associazione “Occhio del ciclone” e del Centro di ricerca economico e sociale, che hanno fatto un’indagine per capire la domanda potenziale di riuso. Per esempio, la catena Mercatino srl gestisce in franchaising centosettanta affiliati, effettuando vendite per conto terzi e trattando venticinque milioni di oggetti. Si scopre che il mercato dell’usato in Italia può valere 30 mila miliardi».
Lei scrive che gli oggetti hanno un’anima: di cosa è fatta quest’anima?
«L’anima è fatta di rimandi, di riferimenti, di associazioni di idee, che in parte appartengono all’oggetto, per cui sono ineludibili, come nel caso delle opere d’arte, dei pezzi di antiquariato, dei mobili vintage, di oggetti di modernariato. Poi c’è l’aspetto soggettivo, quando l’oggetto ricrea un vissuto, ci fa entrare nel mondo di una persona, come nel caso della Flem che s’introduce nella vita dei genitori, ormai scomparsi. Niente ha un potere così evocativo come gli oggetti».
Ma il riuso è più un fatto economico o più qualcosa di sentimentale?
«Negli ultimi due anni si è assistito a una espansione di vestiti riadattati e riusati: in questo caso prevale lo spirito di carattere economico, che per affermarsi deve superare la vergogna. In realtà c’è oggi un’accettazione maggiore delle cose vecchie. Ricordo che nel 1980, terremoto in Irpinia, giunse dalle popolazioni colpite un appello a non mandare giù vestiti usati. Oggi non lo direbbe più nessuno, perché è finita la frenesia del nuovo. Di conseguenza riprendono forza e diffusione forme di lavoro, saperi operai e competenze manuali che corrispondono all’uomo artigiano descritto da Richard Sennett. Ricordiamoci che smontare un’automobile o un elettrodomestico richiede più know how che montarlo».
Lei ha iniziato a occuparsi di rifiuti negli Anni Novanta: che cosa l’ha spinto su questa strada?
«Un senso di disagio di fronte agli sprechi, e poi ragioni più viscerali. Vedevo nei rifiuti il rimosso della società. Mi ha aiutato molto la conoscenza di un netturbino milanese che mi raccontava tutto ciò che faceva e i problemi che doveva affrontare».
Ma alla fine si butta qualcosa, non si butta niente, si butta tutto? C’è la Flem che in una certa pagina del suo libro, prorompe: «Stop! Fine! Basta così! Buttare, buttare…».
«Il punto è che il problema di buttare non può essere affrontato da soli. Lo slogan rifiuti zero che oggi interessa molte amministrazioni locali, da San Francisco alle città italiane, cerca un modo di non produrre rifiuti che richiede un’organizzazione molto complessa».
Lei è stato un leader del movimento studentesco, della contestazione e di Lotta continua: anche allora ci furono dei libri a influenzare le sue scelte, per esempio Marcuse?
«Ho letto molto poco Marcuse. La cosa che sentivo come guida, sforzandomi di adattarla alla mia realtà, era il situazionismo francese, cominciando con Guy Débord e il suo La società dello spettacolo. Dovrei citare anche La miseria dello studente, di Mustafà Kayati, diffuso nel 1965-66 da un’associazione di studenti di Strasburgo. I situazionisti erano un gruppo elitario di uno snobismo mostruoso, ma anche di una intelligenza mostruosa. Abbinando consumo e spettacolo avevo cercato di tradurre queste idee nel movimento studentesco e in Lotta continua».
Un libro cult degli extraparlamentari fu «La città e i cani» di Vargas Llosa: lei lo leggeva?
«No. Però è vero che Vargas Llosa era popolare fra noi, come un po’ tutti gli scrittori sudamericani dell’epoca. Tant’è vero che lo invitammo a parlare nell’Università di Torino occupata. E lui venne».
A casa sua lei trovava libri, vedeva entrare libri?
«Sono rimasto orfano da giovane. In casa mia i libri entravano in misura contenuta. Invece ricevevo i libri che mi passava la biblioteca della mia scuola. Il risultato fu che fino a quindici anni non ho letto niente, salvo i libri della biblioteca che ero obbligato a leggere. Una volta liberato da questo obbligo, ho letto tantissimo: un libro al giorno, 250 all’anno. Poi ho cominciato l’attività politica e ho smesso di leggere: l’impegno era talmente alto che non restava proprio il tempo».
Leggeva anche letteratura? E leggeva i classici?
«Sì. I russi, Kafka, Mann, Zola, Hugo, e i grandi americani, da Faulkner a Hemingway».
Un libro importante che non ha letto?
«Pinocchio. Credo di essere uno dei pochi che l’ha trascurato. Vidi lo sceneggiato di Comencini, lo trovai bellissimo, ma non bastò a convincermi a leggere Collodi».
Ci dica tre classici cui non rinuncerebbe mai.
«I Canti di Leopardi, Il processo di Kafka, e la Divina Commedia letta da Edoardo Sanguineti, dal quale ho ricevuto ripetizioni di italiano».
Tra i narratori moderni?
«Thomas Bernhard. Il più grande scrittore del ventesimo secolo. Soprattutto nella Fornace, che mette in scena chi esercita il potere avvalendosi degli handicap di chi gli è sottoposto».
Quando legge adesso? E dove? E come?
«Io mi porto sempre un libro in tasca perché non sopporto le code, le lungaggini, le attese. Devo avere un libro che mi faccia passare il tempo. Altrimenti leggo soprattutto in viaggio, ragion per cui prendo il treno ogni volta che posso».