Vendola, sette ore di interrogatorio "Dovere morale dire la mia sull'Ilva"
Lunghissima audizione del Governatore, che aveva chiesto di essere ascoltato dopo aver ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini: è sotto inchiesta per concussione. "Mai fatto pressioni su nessuno e mai tenero con l'Ilva: lo dimostrano le carte" ha detto ai magistrati
27 December, 2013
Di Giuliano Foschini
Un interrogatorio lungo più di sette ore. Una ricostruzione certosina di numeri, fatti, date per provare a evitare un rinvio a giudizio ma soprattutto per «riprendermi la mia storia: io ho fatto sempre il mio dovere. Anche più del mio dovere. Io, Taranto non l’ho mai abbandonata ». Se Nichi Vendola c’è riuscito si saprà soltanto nelle prossime settimane, quando la Procura di Taranto deciderà se chiedere per lui il processo o l’archiviazione. Certo quella del Governatore ieri è stata un’audizione fiume, cominciata alle tre del pomeriggio e terminata poco dopo le 22.
Vendola è indagato con l’accusa di concorso in concussione. Secondo l’accusa avrebbe effettuato indebite pressioni nei confronti del direttore generale dell’Arpa, Giorgio Assennato. «Abusando Vendola, della sua qualità di presidente della Regione — si legge nel capo d’imputazione — mediante minaccia implicita della mancata riconferma nell’incarico ricoperto, costringeva Assennato ad ammorbidire la posizione di Arpa nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’impianto siderurgico dell’Ilva». Una tesi, questa, che Vendola ha sempre però fortemente contestato ricordando come la sua giunta sia stata l’unica a volere e fare approvare due leggi per stabilire i limiti di inquinamento a Taranto.
Nello specifico, a Vendola viene contestato di aver convocato una riunione il 15 luglio del 2010 nella quale — alla presenza di dirigenti regionali, assessori, esponenti politici, tecnici e uomini dei Riva, assente Assennato — si sarebbe discusso di alcuni dati sul benzoapirene rilevati dall’Arpa e assai sfavorevoli ai Riva. Dati che avrebbero fatto infuriare Vendola. Per lo meno così racconta Girolamo Archinà, il Rasputin della famiglia Riva, al suo padrone, in una telefonate intercettata: «Tieni presente che già psicologicamente, ieri, è avvenuto questo: Assennato è stato fatto venire al terzo piano però è stato fatto aspettare fuori… come segnale forte…».
Agli atti c’è poi una mail nella quale Archinà ricostruisce che «Vendola avrebbe detto che così com’è Arpa Puglia può andare a casa perché hanno rotto..., e ribadiva che in nessun caso l’attività produttiva dell’Ilva avrebbe dovuto subire ripercussioni». Tutte menzogne, sostiene il presidente della Regione. Che, con i magistrati, ha ripassato punto per punto le intercettazioni telefoniche che lo riguardavano, spiegando il significato delle conversazioni. Solo due quelle dirette. Nelle altre era Archinà che parlava di lui, secondo Vendola millantando: «La prova è negli atti che la Regione ha fatto sull’Ilva» ha spiegato. Nello specifico ha dimostrato come la relazione in questione era già depositata prima di quella riunione. E soprattutto un paio di giorni dopo il dirigente della Regione l’ha anche inoltrata al Ministero.
«Vi sembra un atteggiamento reticente? O che abbia voluto fermare qualcosa?» ha chiesto Vendola ai magistrati. Il presidente, assistito dall’avvocato Vincenzo Muscatiello, dovrebbe aver depositato anche documenti al procuratore Franco Sebastio, l’aggiunto Pietro Argentino, i sostituti Remo Epifani e Giovanna Cannarile, ai quali si è aggiunto più tardi il pm Raffaele Graziano che lo hanno interrogato. Aveva chiesto di essere ascoltato anche Assennato, indagato per favoreggiamento di Vendola: l’interrogatorio, visto la lunga deposizione di Vendola, è però slittato. E così ha deciso di depositare una lunga memoria difensiva. «Mai ho ricevuto pressioni» ha ribadito.