Rifiuti: bruciarli meglio, per bruciarne meno
Gli inceneritori di rifiuti potranno operare al limite massimo della capacità e assorbire le eccedenze di altre Regioni. Con alcuni correttivi, la maggiore flessibilità dei flussi destinati ai diversi impianti può dare diversi vantaggi. Indispensabili rete nazionale di ultima istanza ed ecotassa - dal Lavoce.info del 03.10.2014
08 October, 2014
di Antonio Massarutto
Il decreto “sblocca Italia” prevede che gli impianti di incenerimento dei rifiuti sul territorio nazionale siano autorizzati a operare al limite massimo della capacità, al fine di assorbire le eccedenze di altre Regioni. Poiché gli impianti sono quasi tutti al Nord, mentre le eccedenze provengono principalmente dal Centro-Sud, alcuni la vedono come una sorta di vendetta postuma contro il Nord che, in passato, ha destinato alle Regioni meridionali enormi quantità dei propri rifiuti, malamente trattati e peggio seppelliti nelle tante “terre dei fuochi”. Per altri si tratta di un regalo alle multiutility del Nord, che possono così incrementare i profitti, anche tradendo il patto con il territorio che, all’origine, aveva permesso di realizzare gli impianti. Per altri ancora è l’ennesima occasione mancata per costringere le regioni più arretrate a dotarsi di più moderni ed efficaci sistemi di gestione del rifiuto. Non manca chi ironizza sul fatto che la capitale possa essere così salvata dall’emergenza annunciata che presto l’avrebbe messa in ginocchio. In verità, una maggiore flessibilità dei flussi di rifiuti destinati ai diversi impianti comporta, a mio parere, numerosi potenziali vantaggi. Gli inceneritori hanno alti costi fissi ed economie di scala. Conviene farne pochi e grandi, ma così si moltiplicano anche i rischi industriali legati all’eventualità di un sottoutilizzo. Un problema di cui si sono accorti con ritardo nel Nord Europa – e in virtù del quale, va detto, i rifiuti napoletani possono essere gestiti in Olanda. Un evidente vantaggio è quello di usare al meglio la capacità esistente, riducendo – sebbene non eliminando – la necessità di nuovi impianti. Questi ultimi si potranno liberare dal principio di autosufficienza e prossimità, potendo servire ambiti più vasti. Pochi impianti efficienti, quindi, invece che tanti e sottodimensionati. Se ben disegnato, il meccanismo dovrebbe anche incentivare il riciclo: le aree già dotate di inceneritori, infatti, avrebbero interesse a riciclare di più a casa propria, per liberare capacità da cedere al mercato; quelle deficitarie saranno stimolate a fare lo stesso, per ridurre al minimo la necessità di acquistare capacità altrui. Nell’immediato, troverebbe destinazione una fetta non piccola dei rifiuti che finiscono in discarica – ancora il 36,9 per cento del totale – o esportati. E si eviterebbero le sanzioni che l’UE prevede per chi manca gli obiettivi di recupero. Nel medio termine, le Regioni in ritardo nello sviluppo delle raccolte differenziate, ma a corto di discariche, potrebbero concentrare gli sforzi sulle prime senza lo spettro dell’emergenza incombente.
I RISCHI
Non vanno tuttavia sottovalutati anche gli svantaggi. Primo, non sempre gli impianti esistenti sono già autorizzati a operare al massimo della capacità – tanto che la norma prevede una corsia veloce per l’adeguamento delle autorizzazioni ambientali. I limiti attuali potrebbero essere stati imposti per evitare un sovraccarico di emissioni; estenderli in modo frettoloso, potrebbe compromettere gli equilibri territoriali. Il secondo svantaggio è dovuto all’“azzardo morale”: le Regioni in deficit sarebbero disincentivate dalla ricerca di soluzioni a casa propria, disponendo dell’ombrello offerto dagli impianti che altre hanno saputo costruire, anche grazie a una migliore capacità di gestire il consenso delle comunità interessate e prevenire i conflitti. Finora un aspetto chiave che ha permesso di venire a capo delle opposizioni è stato proprio l’impegno a utilizzare gli impianti solo per i rifiuti prodotti localmente, elevando il principio di autosufficienza a baluardo contro la possibile invasione di “rifiuti stranieri”. Tanto che la Lombardia si era già opposta all’ipotesi di un utilizzo dei propri impianti per la “munnezza” napoletana, e ora è in prima linea nel difendere la propria autonomia. Occorre tuttavia ricordare che già oggi questi impianti ricevono frazioni consistenti di rifiuti speciali, senza vincolo di prossimità: spesso scarti della selezione a valle delle raccolte differenziate. Un terzo aspetto delicato è legato alla concentrazione dell’offerta, anche a seguito dei processi di integrazione che caratterizzano le utility locali. Buona parte della capacità è controllata da Hera, A2A e Iren; la fusione tra le ultime due è molto più di un’ipotesi. La norma avrebbe l’effetto di congelare la capacità disponibile.
UNA RETE NAZIONALE DI ULTIMA ISTANZA
Ecco allora alcuni tasselli che ancora mancano nella norma e che potrebbero potenziare i vantaggi, riducendo gli svantaggi. Primo, non c’è bisogno di passare dall’estremo della pianificazione confinata entro ambiti provinciali, all’estremo opposto di una totale liberalizzazione. Il principio di autosufficienza potrebbe valere per livelli concentrici. Chi non riesce a gestire i propri rifiuti a casa propria potrà avvalersi di una capacità di riserva messa a disposizione dalla Regione in altre province, come già accade. E le Regioni che non riusciranno a disporre di sufficiente capacità si rivolgeranno a una “rete nazionale di ultima istanza”, predisposta dallo Stato prenotando capacità presso impianti di altre Regioni. Secondo, per scoraggiare l’azzardo morale, il ricorso alla rete nazionale deve essere accompagnato da forti sanzioni economiche (ecotassa). La penalizzazione potrebbe essere fissata a un livello già elevato nel caso in cui una Regione dichiari con congruo anticipo il deficit, e ulteriormente maggiorata nei casi in cui lo faccia in emergenza. I proventi dell’ecotassa devono andare a compensazione delle aree che ospitano gli impianti di destinazione. Terzo, lo Stato dovrebbe programmare in anticipo la rete di ultima istanza, basandosi sulle “prenotazioni” da parte delle Regioni, istituendo meccanismi competitivi, una sorta di “capacity payment”, con eventuale ricorso a precettazione d’urgenza solo per il ricorso non programmato in caso di emergenza. Se nella borsa elettrica opera un “mercato del giorno prima”, qui si potrebbe pensare a un “mercato dell’anno prima” o “del mese prima”, con analoghe caratteristiche. Quarto, per rafforzare la dissuasione, andrebbero elevati gli obiettivi di recupero e riciclo in capo ai consorzi nazionali delle varie filiere (imballaggi e non solo), ricorrendo a soluzioni ispirate al principio di “responsabilità estesa” anche per altre frazioni. Contestualmente, andrebbe ulteriormente disincentivata la discarica, incrementando la tassa sul conferimento a questi impianti o ricorrendo a meccanismi di “cap and trade” analoghi a quelli istituiti nel Regno Unito. Quinto, l’emergente concentrazione industriale richiede un’attenta regolazione delle tariffe di conferimento agli impianti. Si può ipotizzare che ogni impianto sia vincolato ad accogliere prioritariamente i rifiuti raccolti sul proprio territorio a una tariffa standard regolata; le eccedenze potranno essere utilizzate per rifiuti di altra provenienza, a condizioni di mercato, prevedendo meccanismi di profit-sharing a vantaggio degli utenti locali, attraverso uno sconto sulla tariffa regolata. Infine, per governare l’iter di autorizzazione all’espansione della capacità, devono essere previste tutte le cautele del caso, ad esempio imponendo ulteriori misure di abbattimento o compensazione delle emissioni sul territorio, assicurando un congruo ruolo alle agenzie ambientali delle Regioni ospitanti, ovviamente evitando che queste si servano dei propri organi tecnici per vanificare la norma, negando a priori l’assenso.
Antonio Massarutto
Laureato in Economia Politica presso l'Università Bocconi nel 1990, è attualmente professore associato di Economia Pubblica presso l'Università di Udine e direttore di ricerca presso lo Iefe (Istituto di economia e politica dell'energia e dell'ambiente) dell'Università Bocconi. I suoi campi di ricerca intersecano lo studio delle politiche ambientali e l'organizzazione dei servizi pubblici locali, con particolare riferimento al settore idrico e dei rifiuti.