Spreco alimentare, esiste una definizione univoca?
Dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, passando per l'Italia: cosa si intende per "spreco alimentare"? da Linfalab.it (Laboratorio di Libera Informazione Ambientale)
27 April, 2015
Eccedenze, invenduti, scarti. La terminologia impiegata per categorizzare gli alimenti che diventano rifiuto è varia ed esprime un solo numero, quello che la FAO indica come il valore dello spreco alimentare nel mondo: 1, 3 miliardi di tonnellate di cibo che ogni anno diventano spazzatura.
Ma qual è la definizione corretta per “spreco alimentare”?
Parlare di food waste come di cibo acquistato che finisce in spazzatura, non è esaustivo per definire il concetto di spreco, perché è lungo tutta la catena agroalimentare che inizia il processo di scarto di prodotti alimentari ancora commestibili.
Ad oggi, con Expo alle porte e con l’aumentata ricerca e informazione sul tema degli sprechi alimentari, non esiste ancora una definizione univoca di “sprechi alimentari”. Né a livello istituzionale né nella letteratura scientifica specializzata.
La Commissione per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo considera lo scarto alimentare come «l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare, che – per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinabili al consumo umano – sono destinati ad essere eliminati o smaltiti».
Tuttavia alcuni Paesi europei hanno proposto altre definizioni. In Italia, ad esempio, Andrea Segrè e Luca Falasconi in “Il libro nero dello spreco: il cibo” hanno indicato come “spreco” i «prodotti alimentari scartati dalla catena agroalimentare, che hanno perso valore commerciale, ma che possono essere ancora destinati al consumo umano».
In Gran Bretagna, invece, il Waste Resources Action Program (WRAP) propone una definizione di food waste che distingue lo spreco di cibo in:
- evitabile (quando si tratta di cibo e bevande finiti in spazzatura ma ancora edibili, come pezzi di pane, mele, carne, ecc.)
- possibilmente evitabile (nel caso di cibo e bevande che alcune persone consumano, per esempio le croste del pane, e altre persone no; ma anche il cibo che può essere consumato se cucinato, per esempio la buccia di patate)
- inevitabile (ovvero ossi di carne, bucce d’uovo, d’ananas ecc.)
Accanto ad una meticolosa definizione proveniente dal mondo anglosassone, c’è anche quella proposta dall’Enviromental Protection Agency (EPA), molto più generica e che lascia maggior arbitrio agli stati americani nel definire cosa si intende per spreco. Secondo l’EPA,infatti, è food waste «ogni alimento scartato durante la preparazione in ambiente domestico, in ristoranti, bar o mense».
A dare un’ulteriore specifica al concetto di food waste è lo studio commissionato dalla FAO al Swedish Institute fof Food and Biotechnology (SIK), in cui è stato introdotta la differenza tra i food losses e il food waste. Una distinzione questa, che tiene conto esclusivamente degli aspetti quantitativi del food waste.
Per food losses, si intendono, infatti, le perdite che si determinano durante le fasi della produzione agricola, post-raccolto e trasformazione degli alimenti.
Mentre per food waste si intendono gli sprechi di cibo che si verificano nell’ultima parte della catena alimentare, ovvero nella fase di distribuzione, vendita e consumo finale.
Si tratta di una visione del cibo e della sua produzione che va in una direzione ben precisa: quella che considera il cibo come una merce, ovvero un bene dall’esclusivo valore economico.
In “Il sistema agroalimentare in italia, i grandi cambiamenti e le tendenze recenti”, Roberto Fanfani, docente di Politica Economica ed Economia Agraria all’Università di Bologna, definisce lo spreco, infatti, proprio come «un prodotto che ha perso il suo valore economico».
e quindi commerciale. In poche parole, un alimento che non può essere più venduto pur potendo essere ancora consumato dall’uomo.
Ma può essere questa la giusta chiave di lettura ad un fenomeno dalla portata enorme sia dal punto visto dell’impatto ambientale, sia di quello sociale che economico? Probabilmente no. In un discorso così complesso, già a partire dalla mancanza di una definizione univoca, è opportuno accostarsi al tema dello spreco alimentare rivalutando le questioni che attorno ad essa ruotano e che sono parte in causa del problematico dato numerico fornito dalla FAO: 222 milioni di tonnellate di cibo buttato nei Paesi industrializzati, a fronte delle 805 milioni di persone che, allo stato attuale, sono sottoalimentate.