Vanchiglia Lov: i bianchi sporcano, i neri puliscono
Dal blog “Quiete o tempesta” pubblichiamo l'articolo di Davide Grasso apparso anche su nuovasocieta.it relativo alla pulizia differenziata della Lov Vanchiglia
09 June, 2015
di Davide Grasso
Domenica 7 giugno, ore 17, corso Regina angolo via Guastalla: una trentina di persone di origine africana sosta in prossimità del semaforo. Un tizio – bianco – sembra impartire ordini. Suo collaboratore e intermediario è un altro signore, dalla pelle nera: dotato di auricolare, inizia a distribuire scope e attrezzi da lavoro a tutti gli altri. Poi si mettono in marcia per ripulire i rifiuti dalle strade di Vanchiglia, dove è in corso #Lov7, l’iniziativa pre-estiva in cui esercizi commerciali restano aperti e l’intero quartiere è isola pedonale per il passeggio di abitanti e famiglie. Via Guastalla è un profluvio di negozietti aperti, gente che entra ed esce, assaggi dalle bancarelle; ma il grosso della festa, come sempre, ha epicentro in via Santa Giulia: musica, canti, birra – persino danza del ventre. Piccola fiumana di genitori con passeggini, pensionati e studenti, che si lascia dietro anche qualche cartaccia. Niente paura: i ragazzi si chinano e puliscono, si danno da fare con la pettorina gialla perché, nonostante l’affollamento e l’eventuale divertimento, l’intera area resti il più possibile pulita, e la raccolta sia differenziata. I commercianti si fanno pubblicità e guadagnano, gli italiani cazzeggiano, i neri puliscono. Tutto in ordine.
Eppure
non siamo a due passi dalle piantagioni di cotone della Louisiana nel
1850, ma all’iniziativa finto-chic del tessuto commerciale
vanchigliese, nel 2015. Tant’è: la stratificazione razziale del
terzo millennio si propone ai nostri occhi con insolita ruvidezza, e
magari è meglio così, se è la sostanza del mondo in cui viviamo.
Inevitabili le perplessità e i commenti di passanti e di alcuni
degli stessi esercenti. Un cartolaio borbotta: “Sto notando questa
cosa dei ragazzi di colore che puliscono le strade… Mi sembra un
po’ una cazzata”; su via Santa Giulia, una ragazza è più
diretta: “Questo spettacolo è una merda”. Poco oltre, in piazza,
dove un concerto di musica folk manda in brodo di giuggiole la solita
manica di fricchettoni, una professoressa si dichiara amaramente
stupita: “Inizialmente pensavo fosse una sorta d’installazione
mobile, una performance ambulante, una provocatoria messinscena per
denunciare il razzismo delle nostre democrazie; soltanto dopo ho
capito che stava accadendo per davvero…”.
Quando
il piccolo esercito di pulitori fa ingresso in via Balbo,
costeggiando il centro sociale Askatasuna, la questione esplode:
alcuni ragazzi avvicinano i coetanei africani e gli chiedono se sono
pagati per ciò che stanno facendo, ma la risposta, molto imbarazzata
è “Mmm… No… Cioè, non so…”. Subito il ragazzo con
l’auricolare, distributore di scope e palette, si frappone
preoccupato tra chi sta cercando di instaurare una comunicazione e i
pulitori e, quando gli viene posta la stessa domanda, altrettanto
imbarazzata è la risposta. Il segreto (di Pulcinella) è presto
svelato dal ragazzo rigorosamente bianco e italiano che ha capitanato
la truppa fin dalla prima apparizione. Appartiene alla Cooperativa
Sociale “L’Isola di Ariel”, di cui tutti i migranti indossano
la pettorina e, apostrofato dagli astanti con frasi come ‘Voi
sfruttate questi ragazzi’, offre una risposta eloquente. Alla
domanda sulla retribuzione della manodopera, infatti, piega l’indice
e il pollice della mano destra quasi con aria di sfida, fino a
formare un piccolo cerchio con le dita: zero.
Zero
assoluto? C’è chi vocifera di un buono pasto, chi di un rimborso
del biglietto del bus utilizzato per arrivare fin lì; ma ciò non fa
che peggiorare la sostanza, in perfetto stile schiavistico. Si viene
così a sapere che la cooperativa “L’Isola di Ariel” ha
ricevuto nientemeno che dal prefetto di Torino l’incarico di
“mettere al lavoro” queste persone (sbarcate sulle nostre coste
dai territori africani come rifugiati) grazie ai finanziamenti del
progetto Mare Nostrum promosso dal Ministero dell’Interno tra il
2013 e il 2014. Un progetto che prevedeva pattugliamenti di coste ma
anche appalto, da parte dello stato, dei percorsi di “accoglienza”
ad associazioni e cooperative, anche attraverso i C.A.R.A. (centri di
accoglienza per richiedenti asilo, specificamente rivolti a profughi
e rifugiati), nei quali si sarebbero promossi “percorsi di
accompagnamento e facilitazione all’inserimento dei richiedenti
asilo, nell’ambito del tessuto sociale circostante”.
Un’accoglienza e un inserimento il cui tenore è ben descritto
dalle scene viste in Vanchiglia domenica pomeriggio: spazzare la
monnezza per gli italiani, e gratis.
D’altra
parte, come spiega il cooperante davanti a un capannello sempre più
folto e allibito, “grazie a noi queste persone trovano un modo per
passare la loro giornata”; altrimenti, poverini, “si
annoierebbero e non farebbero niente dalla mattina alla sera”. Lo
affianca una ragazza dell’associazione Eco dalle Città, che ha
promosso questa iniziativa con i soliti finanziamenti della Compagnia
di San Paolo: “Pulire le strade è giusto, differenziare la
raccolta anche. In questo modo questi ragazzi dimostrano che possono
rendersi utili alla collettività”. Bel concetto: dopo secoli di
massacri, guerre ed espropriazione coloniale dei loro paesi, e nel
bel mezzo di una crisi globale prodotta da null’altri che
dall’Occidente, i profughi che affrontano viaggi terribili e
superano tragedie a causa delle nostre leggi sull’immigrazione
devono anche ripulire “Vanchiglia Lov” per essere accettati e
dimostrare che “possono essere utili” alla società.
Un
ragazzo tunisino segue la discussione, ma non accetta questo punto di
vista: “Io non devo chiedere ‘per favore’ a nessuno per il
fatto di essere qui. ‘Per favore’ si chiede al bar per una birra,
a un amico per una sigaretta. ‘Per favore’ per stare qui,
lavorare ed essere pagato non è educazione, è mancanza di
carattere”. Il problema è che, dietro all’insopportabile
retorica del ‘realismo politico’ e dell’‘assistenza concreta’
la sinistra social-imprenditoriale non soltanto lucra privatamente su
problemi collettivi (causati peraltro proprio dal lucro come metro
dell’organizzazione sociale), ma predispone un apparato
ideologico-moralistico privo di qualsiasi rispetto che giustifica in
senso progressista un razzismo agghiacciante, che assume
silenziosamente una superiorità di fatto di popoli “civilizzati”
su quelli ancora “da integrare” (sul piano dell’efficienza
capitalista o su quello di una disciplinata etica del lavoro, che
imbelletti una disponibilità di fondo a vendersi, sia pur
modernamente, come schiavi).
Se
la xenofobia salviniana è palese e divide, lacera e scandalizza, ma
permette almeno di schierarsi, l’ipocrisia finto-sinistroide uccide
la riflessione e la critica perché nasconde il problema, impedendo
anche di nominarlo. La ragazza dell’associazione sbotta, non a
caso: “Perché continuate a dire che i neri stanno pulendo per i
bianchi? Io non vedo neri e bianchi, qui, ma soltanto persone!”. È
albanese, e rivendica la storia d’immigrazione della sua famiglia,
persino il suo essere comunista; cosa che purtroppo, come noto da
tempo e come il suo caso dimostra, non vuol dire più nulla. Perché,
infatti, prestarsi a una simile operazione? “Siete voi i veri
arretrati, perché vedete nella raccolta rifiuti una cosa sporca, con
cui non ci si deve sporcare le mani…!”. Insopportabile,
insostenibile, intollerabile green-brain-waschingpolitically
correct in stile Expo ma con più zucchero, dove il
capitalismo è carità e il lavoro è dono al prossimo, in questo
mondo bello e radioso che però, purtroppo, non esiste.
Se
c’è chi, giunto in un paese sconosciuto senza mezzi e senza
prospettive, accetta anche un umiliante, e fasullo, “inserimento
nel tessuto sociale”, c’è anche chi, nato in loco e
perfettamente “italiano” (come altri ragazzi dell’associazione),
ma in una generazione precaria, accetta lo stesso sfruttamento
travestendolo da volontariato, magari per “trovare contatti” o
“fare curriculum” o, peggio ancora, per rompere quella solitudine
e quel senso d’inutilità sociale che andrebbero semmai affrontati
lottando contro, e non lavorando per, le istituzioni che ci affamano.
Mentre l’istituzione pubblica, infatti, dismette i servizi, il
colosso finanziario (San Paolo) ne offre surrogati e fa precipitare
la città in una preistoria dove le necessità sociali non sono
affrontate modernamente, distribuendo i compiti e gli utili (vale a
dire pagando almeno chi lavora), ma secondo una logica due volte
schiavistica, culturalmente medievale, dove la mano d’opera è
formata ed educata per concedersi senza contropartita che non sia
moralistico-macchiettistica, ideologica, con il risultato che chi ha
“carattere” – per parafrasare il signore tunisino – affronta,
se gli va bene, la disoccupazione e l’emarginazione: ci sarà
sempre chi sarà pronto a lavorare gratis “volontariamente” al
suo posto.
Vale
per i rifiuti, vale per gli eventi e le fiere, vale per le arti e per
la ricerca. Prendere o lasciare: è la democrazia di Renzi e Fassino,
dove grande finanza e cooperative sociali costituiscono il potere
assoluto di un capitale selvaggio e razzista, che guadagna nel
fingere di tamponare i problemi locali e globali che crea (in primo
luogo in rapporto ai fenomeni migratori), impendendo al mondo
di sotto (nero, bianco o a pallini che sia) di togliere di
mezzo questo rivoltante e parassitario mondo di sopra. Un
mondo di lacché, trogloditi e mezze donne/mezzi uomini che si
aggirano ricoprendo di una patina umanitaria ogni nefandezza, con la
spocchia di chi, dall’alto di non si sa bene cosa, pensa persino di
poter puntare il dito e millantare o giudicare: come l’ex assessore
Paolo Hutter, principale organizzatore dello scempio di domenica (è
presidente di Eco dalle Città) che, aggirandosi tra le belle
immagini di profughi “al lavoro” con una polaroid al collo (non
sia mai che la gente non sappia!), ha risposto, sbraitando, a un
ragazzo dell’Aska che gli rinfacciava un simile atteggiamento: “Lei
non sa chi sono io… Io è una vita intera che metto le mani nella
merda!”. Come lui, tanti altri. Le mani nella merda, di sicuro.
Dipende sempre da cosa si intende.
Leggi l'articolo dal blog Quiete o tempesta