Spreco di cibo, confessioni di una cameriera indignata
“Ci sono ristoranti che sprecano meno, altri che buttano via ogni sera enormi quantità di cibo, ma il problema maggiore sono i piatti cucinati". Il racconto di Rossana, giovane cameriera che lavora nella ristorazione da quasi 10 anni
02 February, 2016
Rossana, 25 anni, fa la cameriera. Ha iniziato quando ne aveva 18 e da allora ha cambiato vari ristoranti di Milano e altrove, lavorando sia in ambienti ristretti e familiari sia in ambienti affollati, tutti accomunati da un grande disagio: lo spreco di cibo al termine del servizio. “Ci sono ristoranti che sprecano meno, altri che buttano via ogni sera enormi quantità di cibo non consumato” - racconta - “Spesso ho portato a casa avanzi di pane o torte, ma il problema maggiore sono i piatti cucinati. A volte metto i resti in un tupperware, per esempio quando avanza pasta o risotto, ma non tutti lo consentono e, soprattutto, non è la mia schiscetta che ridimensiona le quantità dello spreco”.
È noto che la ristorazione sia uno dei settori maggiormente coinvolti nel problema dello spreco alimentare. Se provassimo a svuotare un bidone di un qualsiasi ristorante, troveremmo soprattutto pane, verdure, dolci, formaggi e salumi, salse. Troveremmo ovviamente anche resti di pietanze non terminate, ma questo perché l’uso delle doggy bag è ancora inconsueto e poco conosciuto. Che sia perché il cliente si vergogna o perché mangiare avanzi non è per tutti allettante, non si sa. Pochi pensano che la doggy bag può essere anche immediatamente consegnata a chi vive per strada, magari proprio vicino al locale dal quale si esce.
“L’anno scorso lavoravo in un bar animato, molto grande – prosegue Rossana - Iniziavo la mattina, arrivava il fornitore di pane e croissants portando sempre la stessa quantità di merce. Non si faceva una stima della settimana: io avevo notato che in genere il sabato avanzavano molte più paste degli altri giorni e avevo proposto di ordinarne ordinarne meno, ma il capo disse di no, perché non si sa mai che poi restiamo senza!”.
Nei locali piccoli lo spreco di cibo è ridotto se paragonato ad altri, situati per esempio nei pressi di stazioni, uffici, luoghi d’interesse e turistici. Più un ristorante è grande e più necessita della certezza di non rimanere senza prodotti, a costo di buttare via teglie intonse e pentoloni ancora fumanti. “Ho lavorato anche in un self service” – dice Rossana – “Avevamo l’obbligo di friggere patatine fino ad un certo orario, non importava se non c’era più nessuno a ordinarle. Quante volte mi si è annodato lo stomaco, vedendo l’aiuto cuoco gettare nella pattumiera le patatine fritte, subito dopo averle estratte dalla friggitrice. La prima volta sono corsa dal capo, dicendo che era uno scandalo, ma sono stata ancor più sconvolta dalla sua risposta: funziona così mi disse, quella è la quantità di cui noi dobbiamo disporre quotidianamente, che si consumi o no”. Il problema dei self service, dei fast food, delle mense e dei catering, è questo. Conviene preparare in eccesso, piuttosto che non avere abbastanza cibo. Fino qui, può essere ragionevole: il cliente va soddisfatto. Ma non ci si spiega perché tutto il cibo che avanza non possa essere destinato a chi ha fame.
Sono pochissimi ristoranti in Italia - ma anche nel resto dell’Europa, in realtà, questa cosa ha preso piede recentemente - che hanno avviato collaborazioni con associazioni a scopo caritativo, o mense dei poveri. Nonostante la legge Del Buon Samaritano, ormai famosissima ma ancora poco utile, che consentirebbe di recuperare il cibo assumendosene la responsabilità, le associazioni non sono in grado di far fronte al problema. Non hanno i mezzi, se vogliamo essere sinceri. Non dispongono di fondi sufficienti per acquistare camioncini refrigerati, celle frigo, per pagare la benzina; spesso non hanno abbastanza volontari disponibili a recuperare il cibo. Nonostante esistano la Fondazione Banco Alimentare Onlus, con il programma Siticibo ( che recupera dalla Ristorazione Organizzata) e Equoevento Onlus, che si propone di recuperare da catering ed eventi, pochi pensano a sfruttare davvero questo servizio, per spargere la voce e far si che magari, in futuro, possano arrivare aiuti più concreti dal Governo o dai fondi europei per gli indigenti. Per esempio, servirebbero finanziamenti per le associazioni che si propongono di recuperare e ridistribuire il cibo, per dar loro la possibilità di acquistare i materiali di cui hanno bisogno.
L’Italia ha aderito al FEAD (Fondo di Aiuti Europei agli Indigenti) e ha a disposizione circa 780 milioni di euro da spendere nel periodo 2014-2020 (dati www.secondowelfare.it). Sono state stimate quattro categorie sulle quali agire, tra le quali la prima riguarda la povertà alimentare. Le mense dei poveri e le associazioni caritative ricevono aiuti dall’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), consistenti in derrate alimentari di prima necessità. Si potrebbero utilizzare i fondi del FEAD, però, per pagare servizi “contro lo spreco alimentare” e persone che vi lavorino, magari stilate dagli stessi indigenti. In questo modo si avrebbe più cibo a disposizione, oltre a quello devoluto dal AGEA e si affronterebbe il disagio legato all’esclusione sociale e alla povertà.
Se chiediamo ai proprietari dei ristoranti quanto cibo sprecano, molti rispondono che nel loro locale questa parola non esiste. Nessuno pensa al peso di ogni porzione lasciata a metà, di ogni crosta di pane buttato, invece che riutilizzato o destinato in beneficienza o a canili e allevamenti. E, nel caso il proprietario sappia invece che nel suo locale c’è spreco, la sua risposta sarà quasi sempre: per legge funziona così. “Ho iniziato ad informarmi sullo spreco lavorando in questo settore, ci lavoro da 8 anni e ho visto di tutto – conclude Rossana - soprattutto in Italia, dove le norme igienico-sanitarie ostacolano ancora di più il recupero. Non dico che non si debba stare attenti all’igiene, dico solo che una teglia di lasagne appena sfornata, ma inutilizzata, può benissimo essere trasportata alla mensa dei poveri più vicina, senza che ne venga alterata la qualità. Questo lo sanno tutti, ma evidentemente importa a pochi. Non vorrei più sentire scuse legate alla legge, vorrei che quelle persone a cui sta a cuore questa questione si unissero per chiedere una discussione delle regolamentazioni e delle infinite possibilità che possono essere prese in considerazione, per creare un sistema alimentare più adeguato e funzionale per tutti”.