“Vogliono che indossi le bretelle luminose”
Da La Stampa (Cronaca di Torino) del 31.03.2016
31 March, 2016
Beppe Minello
Hanno parlato di me, ieri mattina, in Comune. Consiglieri che l’ultima bici l’hanno vista forse all’asilo, mi spiegavano quanti danni sto facendo alla libera circolazione stradale. Non hanno tutti i torti: ricordo ogni strada che ho percorso in contromano, i semafori rossi ignorati, gli sguardi di rimprovero dei passanti minacciati dalle mie ruote sul marciapiede. Ma non ho mai fatto male a una mosca. Anzi, l’altra mattina il peggior incubo del ciclista mi si è materializzato davanti in piazza Stampalia: un automobilista in doppia fila ha aperto lo sportello senza guardare e gli sono finito addosso. A differenza di tanti, non se l’è presa con me ma ha subito chiesto scusa. Io e la mia bici sembravano usciti indenni e me ne sono andato bofonchiando qualche rimprovero. Mal me ne incolse perchè sono giorni che le mie costole ammaccate mi rendono difficile il dormire.
«Tutelo la sicurezza»
E ridere. Come avrei voluto fare ieri mattina osservando l’ennesima provocazione del consigliere Silvio Viale, radicale nel Pd, infilare al contrario il giubbino giallo riflettente che vuole imporre a tutti i ciclisti che viaggiano con il buio in città e non solo fuori città come impone il Codice della Strada. «Quando andavo in bici lo mettevo sempre: cosa c’è di male a tutelare la propria sicurezza?» spiegava a chi tentava di dargli una mano per infilare dal verso giusto l’indumento che, al contrario, le associazioni dei ciclisti contestano: «Il Comune non può cambiare il Codice della Strada, non è di sua competenza» hanno fatto scrivere da un avvocato. E con loro si sono schierati, anche per ragioni elettorali ché il cuore della lobby dei ciclisti batte per i grillini e per Airaudo, Trombotto di Sel e Bertola del M5s: «La sicurezza in strada non passa da un giubbotto ma da un approccio diverso alla viabilità». Vero, ma «noi non viviamo in un mondo ideale, viviamo nel mondo reale e con quello dobbiamo fare i conti» ha, altrettanto giustamente, ribattuto Silvio Viale che mi ha di nuovo fatto soffrire ridendo quando ha paragonato «il problema bici al problema cacche dei cani: un fenomeno ormai così diffuso che tutti ne parlano, tutti vogliono dire la loro». Per dire: il presidente della commissione, Altamura, ha allargato il tema chiedendo: «E perché non dovrebbero indossare il caschetto? E l’assicurazione?». Spulciando fra i pareri delle Circoscrizioni alla proposta di Viale, spiccava quello della 10, Mirafiori Sud, del compagno Marco Novello: «Il giubbotto dovrebbe essere indossato sempre, le luci sempre accese e divieto di usare strade alternative quando c’è una pista ciclabile». Chissà cosa combinano i ciclisti di Mirafiori. Tra me e me, vanitoso come sono, già inorridivo nell’immaginare la mia chiccosa giacca «Rapha» coperta da quello straccio giallo luminoso o, peggio, muoversi con una croce brillante davanti e dietro. Certo, se fossi obbligato avrei una giustificazione per il mio narciso.
La luce in città
E perché so, viaggiando (quasi) ogni sera per 12 km e mezzo da un capo all’altro della città e pure un breve tratto nella periferia più lontana e buia, che essere visti è fondamentale. Ma le luci della città, soprattutto in centro, sono sufficienti. Per il casco, per altro nemmeno nominato nella delibera, valgono ragioni estetiche come sopra. La lotta di ogni ciclista che va e viene dal lavoro è non arrivare a destinazione marcio di sudore, cioé impresentabile. Il caschetto non aiuta, soprattutto se si è ancora fortunati possessori di una folta chioma. La delibera è stata rinviata a mercoledì per poter sentire il parere delle associazioni ciclisti e dell’Aci.