\"La grande bufala dell’idrogeno\"
Estratto dal libro "Un futuro senza Luce?" di Maurizio Pallante in uscita per Editori Riuniti
10 December, 2003
Il profeta maggiore ha proclamato che l’idrogeno ci salverà e tutti sono in attesa del suo avvento. Arriva. Sta arrivando. È già arrivato. Il suo regno aprirà una fase nuova nella storia dell’umanità: l’era dell’energia pulita e della sua disponibilità illimitata. «Riuscire a sfruttarlo efficacemente come fonte d’energia potrebbe significare per l’umanità una sorgente energetica virtualmente illimitata, quella sorta di elisir che per secoli alchimisti e chimici hanno cercato inutilmente.» (J. Rifkin, Economia all’idrogeno, pag. 214). Tutta una serie di profeti minori già dipinge nei dettagli i nuovi connotati di un sogno radicato in quella patologia dello spirito umano che i greci chiamavano hybris. Non ci saranno più black out. Le automobili alimentate a idrogeno non inquineranno, per cui se ne potranno produrre senza limitazioni e aprire nuovi mercati in tutto il mondo. Le case diventeranno veramente quelle macchine per abitare preconizzate da Le Corbusier, robotizzate e dotate di una gamma oggi inimmaginabile di elettrodomestici programmabili a distanza. Basterà pigiare qualche tasto e non si dovrà più fare nulla manualmente. Nemmeno grattarsi la schiena. L’industrializzazione potrà estendersi ai paesi sottosviluppati e finalmente si riuscirà a cancellare l’insopportabile vergogna costituita da 2 miliardi di esseri umani che all’inizio del terzo millennio sono ancora privi dei vantaggi dell’elettricità. Guerre per il controllo delle fonti energetiche non se ne faranno più e le odiose forme di ricatto esercitate dai paesi arabi nei confronti dei paesi industrializzati svaniranno come nebbia al sole. Tiè. Destre e sinistre politiche, industriali e sindacalisti, docenti universitari e semi-analfabeti di ritorno, libri, giornali e televisioni: non c’è più nessuno che non aspetti con ansia l’alba della nuova era. Ragione più che sufficiente per rimanere scettici a priori e andare a verificare se questa aspettativa messianica abbia o non abbia fondamento. L’idrogeno, dicono i suoi profeti, è il più abbondante degli elementi chimici dell’universo, è un ottimo combustibile e la sua ossidazione, sia mediante combustione, sia mediante ricombinazione con l’ossigeno nelle celle a combustibile, genera soltanto vapore acqueo, H2O, dove si ritrova intatto, bello e nuovo, come se non fosse successo niente. Cosa si può volere di più dalla vita? Peccato che non si trovi mai da solo, ma sia sempre avvinghiato con altri elementi: con l’ossigeno nelle molecole dell’acqua (H2O), con il carbonio nelle molecole del metano e degli idrocarburi. Per poterlo utilizzare occorre prima scindere questi legami. E per scinderli occorre utilizzare energia. Insomma l’idrogeno non è, come spesso si lasciano scappare i suoi ammiratori travolti dall’entusiasmo, una fonte energetica, ma un vettore energetico. Come fonte di energia per ricavare l’idrogeno si può utilizzare il carbone, bruciandolo in presenza di vapor acqueo. In queste condizioni la combustione va a cercarsi l’ossigeno che le è necessario nelle molecole di H2O. L’ossigeno si unisce col carbonio generando monossido di carbonio, CO, e l’idrogeno resta libero. Questo processo tecnologico si chiama reforming ed è stato utilizzato sin dall’inizio del secolo scorso per ottenere il gas di città, che si produceva nei gasometri e alimentava le cucine dei nostri nonni. Un suo effetto collaterale indesiderato era di ucciderne di tanto in tanto qualcuno, per cui si è ritenuto più prudente sostituirlo con il metano, che, tra l’altro, è meno costoso. Il CO prodotto dal reforming può però essere però bruciato a sua volta, sempre in presenza di vapor acqueo, per ricavare altro idrogeno. In questo caso l’ossigeno della molecola d’acqua si unisce al monossido di carbonio trasformandolo nell’innocua ma climalterante CO2: l’anidride carbonica. Con la stessa tecnologia si possono usare come fonte energetica gli idrocarburi o gli alcoli. Pur avendo un rendimento energetico piuttosto alto, circa il 75 per cento, la produzione dell’idrogeno in questo modo non darebbe nessun contributo alla riduzione dell’effetto serra, né risolverebbe la dipendenza energetica dei paesi occidentali dalle fonti fossili. Le aspettative messianiche si sono pertanto appuntate sulla scissione dell’idrogeno dalle molecole dell’acqua mediante l’elettrolisi. La filiera dell’idrogeno, di cui tanto si parla, richiede dunque un consumo di energia elettrica per fare l’elettrolisi per ricavare l’idrogeno con cui fare energia elettrica nelle celle a combustibile. Gasp! Più dell’elisir degli alchimisti sembra la riproposizione in termini tecnologici dell’uroburo, il mitico serpente che si morde la coda. E meno male che la filiera si ferma lì, perché se dovesse proseguire si avviterebbe in una spiralina che finirebbe ben presto per esaurimento dell’energia. Infatti ogni trasformazione energetica, come sanno anche gli studenti liceali, comporta una perdita. La prima domanda da porsi è pertanto la seguente: l’energia elettrica che si ottiene al termine della filiera dell’idrogeno che percentuale è dell’energia alla fonte con cui la filiera viene avviata? Quanta se ne spreca per strada? Il rendimento dell’elettrolisi, da cui si ricava l’idrogeno, non supera il 70 per cento. In altri termini da 100 unità di energia sotto forma di elettricità si ricavano 70 unità di energia sotto forma di idrogeno e se ne perdono 30 sotto forma di calore a bassa temperatura difficilmente utilizzabile. Il rendimento delle fuel cell, da cui si ricava energia elettrica con l’idrogeno, si attesta intorno al 50 - 60 per cento, per cui l’efficienza complessiva di queste due fasi della filiera va dal 35 (70 x 50) al 42 (70 x 60) per cento. L’energia che si perde (65 – 58 per cento) è più di quella che si ottiene. A queste perdite occorre aggiungere quelle della prima fase, in cui si produce l’energia elettrica necessaria a effettuare l’elettrolisi. Se con l’idrogeno si vuol sostituire il carbonio per eliminare le emissioni di CO2, occorre scartare la produzione termoelettrica, perché altrimenti si otterrebbe l’effetto contrario di farle aumentare. Il rendimento medio attuale della trasformazione termoelettrica nelle centrali italiane è del 38 per cento. Moltiplicato per il rendimento delle due fasi successive, l’efficienza totale della filiera si ridurrebbe al 10 - 16 per cento. Un disastro sia in termini ecologici sia in termini economici. Ipotizzare nel breve periodo un processo di questo genere pur di favorire lo sviluppo della tecnologia dell’idrogeno equivarrebbe ad accendere i fuochi d’artificio la sera prima della festa del patrono per verificare se funzionano. Eppure autorevoli ambientalisti scientifici, che hanno e hanno avuto ruoli di grande responsabilità nella politica energetica nazionale, hanno scritto sul manifesto che un elemento strategico di «una rivoluzione energetica da concertare» è la «ricerca sviluppo e diffusione delle tecnologie dell’idrogeno inizialmente prodotto da fonti fossili, ma anche da rinnovabili». In realtà, oltre alle fonti rinnovabili, non bisogna omettere qualche riflessione sul nucleare. Il contributo delle rinnovabili alla produzione elettrica, a eccezione dei grandi impianti idroelettrici, è talmente modesto che soltanto confondendo i propri nobili desideri con la realtà si potrebbe immaginare che in tempi storicamente prevedibili ne possano produrre una quantità superiore alla domanda in modo da poter utilizzare il surplus per effettuare l’elettrolisi dell’idrogeno. Tuttavia, ammettiamo per assurdo che si riesca a soddisfare la domanda di energia elettrica (in forte espansione, non dimentichiamolo) con le fonti rinnovabili. Come è noto, i consumi raggiungono i massimi livelli di giorno, mentre di notte calano bruscamente. Se le fonti rinnovabili fossero in grado di rispondere alla domanda di picco, di notte si avrebbe un eccesso di offerta che potrebbe essere utilizzata per effettuare l’elettrolisi. Anche in questa ipotesi assurda, nonostante il parere degli ambientalisti scientifici, l’unica fonte rinnovabile con cui non sarebbe possibile avviare la filiera dell’idrogeno è il fotovoltaico, come si deduce dalla semplice constatazione che di notte il sole non c’è. Rimanendo nell’ambito del ragionamento per assurdo, il compito di avviare la filiera dell’idrogeno toccherebbe allora alle altre fonti rinnovabili. Con un rendimento successivo di elettrolisi e celle a combustibile che non supera il 35 - 42 per cento, ma per semplificare i conti facciamo ottimisticamente salire al 50 per cento, per fare l’elettrolisi dell’acqua occorrerebbe installarne una potenza doppia di quella che occorrerebbe se si utilizzasse direttamente l’energia elettrica che producono. Con quello che costano e col poco che rendono in relazione all’investimento, a parità di costi si darebbe un contributo molto maggiore alla riduzione dell’effetto serra utilizzando il carbone nelle centrali termoelettriche e confinando la CO2 negli abissi marini. Si compirebbe il miracolo di far uscire il carbone pulito dalla categoria degli ossimori e di farlo entrare a vele spiegate nella categoria delle opzioni tecnologiche ecologicamente compatibili. Non resterebbe che il nucleare. Per il nucleare l’idrogeno sarebbe come il bacio del principe azzurro alla bella addormentata nel bosco. Lo risveglierebbe dal letargo rendendolo vantaggioso e interessante come non è mai stato. Nelle centrali atomiche il costo del combustibile è relativamente modesto rispetto ai costi di investimento, per cui il problema non è massimizzare i rendimenti, ma far lavorare gli impianti 24 ore su 24 per accelerarne l’ammortamento. Con la produzione dell’idrogeno le loro potenzialità possono essere sfruttate a pieno: di giorno per rispondere ai picchi dei consumi e di notte, quando la domanda scende al minimo, per produrre l’elettricità necessaria a effettuare l’elettrolisi dell’acqua, praticamente senza spese aggiuntive. Risultato: i loro tempi di ammortamento si dimezzerebbero e si avrebbe una produzione di idrogeno in quantità veramente significative ai costi più bassi. In questo modo il nucleare non si limiterebbe più alla generazione di energia elettrica, che rappresenta soltanto poco più di un terzo dei consumi energetici delle società industriali, ma producendo anche un combustibile come l’idrogeno, potrebbe diventare una fonte energetica globale, che abbatte le emissioni di CO2 e i costi delle bollette riducendo al contempo la dipendenza strategica dei paesi industrializzati dai paesi produttori di fonti fossili. Il sospetto che, sostenendo l’idrogeno alcuni ambientalisti stiano inconsapevolmente facendo i cavalli di Troia del nucleare, è forte. È più che un sospetto. A queste considerazioni sull’inefficienza energetica insita nei processi di produzione dell’idrogeno e sui problemi ambientali che pongono, ne vanno aggiunte altre sulla inefficienza e sulla pericolosità di questo gas come vettore energetico. A parità di volume e pressione, l’idrogeno contiene un quarto dell’energia contenuta nel metano. Inoltre è molto più volatile. Per avere un’idea dei problemi che ne derivano, basta pensare che se nelle automobili alimentate a metano la bombola occupa praticamente tutto lo spazio del bagagliaio, per avere la stessa energia con l’idrogeno bisogna impegnare uno spazio grande il quadruplo. Un gasdotto alimentato a idrogeno non solo trasporterebbe 4 volte meno energia di un metanodotto, ma le fughe di gas in volume sarebbero 8 volte maggiori. La sua portata effettiva sarebbe dunque ancora minore. Non bisogna poi dimenticare i pericoli di esplosioni, che si possono verificare sia nella fase del trasporto, sia nella fase di utilizzazione. Basta l’1,5 per cento in peso di idrogeno nell’aria per fare miscela tonante. Fonte illimitata. Pulita. Non sarebbe meglio evitare questi aggettivi, che attengono alle divinità? E forniscono una foglia di fico ecologica alla convinzione che il meccanismo della crescita economica possa essere perpetuato sostituendo le fonti rinnovabili alle fonti fossili? Davvero si auspica che le loro caratteristiche positive possano essere utilizzate per ottenere quegli scopi negativi che alle caratteristiche negative delle fonti fossili non sarebbero più possibili? Ma l’obbiezione di fondo decisiva l’ha formulata la mia vecchia zia Maria, che ha ottant’anni, fa la casalinga ed è sempre vissuta a Voghera, domandandomi: «Ma una volta che si sia prodotta l’elettricità, non conviene usarla direttamente invece di impiegarla per ottenere l’idrogeno con cui rifare l’elettricità nelle celle a combustibile?». Valle a dar torto.