Da chimera a realtà
Italia ancora indietro sulle bonifiche. Che da problema ambientale possono diventare occasione per il recupero del territorio e per lo sviluppo di tecnologie innovative. In questo intervento, pubblicato nel volume Ambiente Italia 2006, Stefano Ciafani, Coordinatore scientifico di Legambiente, fa il punto e riepiloga le richieste dell'associazione al nuovo esecutivo - da Ecosportello News
01 August, 2006
<i><b>di Stefano Ciafani</b>
Coordinatore dell'Ufficio scientifico - Direzione nazionale Legambiente</i>
Ci sono paesi come gli Stati Uniti d'America che da almeno vent'anni hanno fatto delle bonifiche delle aree inquinate una delle priorità della politica ambientale nazionale. E che affrontando un problema di notevoli proporzioni sono riusciti a innescare un meccanismo virtuoso che ha portato al risanamento di grandi porzioni di territorio, al loro riutilizzo, riducendo quindi l'uso di terreni vergini, e alla creazione di una vera e propria industria del disinquinamento, che investe in ricerca, innovazione e tecnologia, coinvolge il mondo accademico e crea posti di lavoro. Questo scenario purtroppo non si è ancora concretizzato in Italia. Ed è questa una delle sfide su cui Legambiente misurerà la capacità del prossimo Governo di imboccare la strada giusta nelle politiche ambientali.
Qualcosa nel frattempo si è cominciato a fare, ma senza l'efficienza e l'efficacia dovuta. Nel dicembre 1998, infatti, è stato varato dal ministero dell'Ambiente il Programma nazionale di bonifica con l'obiettivo di risanare i principali siti contaminati del nostro Paese. Nel piano di disinquinamento c'è un po' di tutto: si va dai grandi poli industriali, come i petrolchimici di Porto Marghera o le acciaierie di Taranto, ai piccoli distretti, come quello calzaturiero della bassa valle del Chienti nelle Marche. Dai siti produttivi finalmente chiusi dopo anni di battaglie ambientaliste, come quello di Manfredonia o l'Acna di Cengio, agli impianti ancora in attività, come quelli di Augusta-Priolo-Melilli o Brindisi. Non mancano neanche le aree inquinate dallo smaltimento illegale di rifiuti speciali, anche pericolosi, trafficati da ecomafiosi o da ecocriminali, come il litorale domitio-flegreo e l'agro aversano o la collina spezzina di Pitelli.
Primi obiettivi, più di 50 aree da ripristinare al più presto
Cinquanta aree, per un totale di 154mila ettari, contaminate dagli inquinanti più pericolosi per la salute umana, come il mercurio nella laguna di Grado e Marano o l'amianto a Casal Monferrato. Che non risparmiano nessun ecosistema, come i fondali del Lago Maggiore minacciati dal Ddt o quelli di un tratto di Mar Ligure inquinati dal cromo esavalente scaricato dalla Stoppani di Cogoleto. E che minacciano le sempre preziose falde acquifere, come quella di Gela su cui galleggiano gli idrocarburi che arrivano dalla locale raffineria o quella di Brescia contaminata dai policolorobifenili, i famigerati Pcb, dello stabilimento della Caffaro.
(...) Alcuni obiettivi sono stati raggiunti - come ad esempio l'approvazione di una legge nazionale sulle bonifiche o la conclusione di numerosi studi epidemiologici istituzionali che hanno confermato il nesso causale tra l'inquinamento causato dalle lavorazioni industriali e le conseguenze sanitarie sulle popolazioni circostanti o sui lavoratori più esposti -, gran parte delle aspettative sono state purtroppo disattese. Sono infatti ancora attivi impianti molto inquinanti, come gli impianti cloro-soda con celle al mercurio di cui si chiede da almeno vent'anni la riconversione alla più sostenibile tecnologia a membrana, e soprattutto non si è ancora concretizzato dopo oltre sette anni quello scenario virtuoso di un'Italia risanata dall'inquinamento che pensavamo vicino con il varo del Programma nazionale.
La denuncia degli ambientalisti sui ritardi del piano di disinquinamento del ministero dell'Ambiente non è rimasta isolata in questi anni: nel gennaio 2003 infatti è arrivata anche quella istituzionale della Corte dei conti. La magistratura contabile in un dettagliato rapporto ha bocciato i "risultati del tutto modesti" ottenuti fino a quel momento e ha evidenziato come "lo svolgimento del Programma si trova ancora nella fase delle attività preliminari agli interventi di bonifica e non è dato prevedere i tempi della conclusione delle opere". (...)
Ancora in pesante ritardo
Sono trascorsi altri tre anni da quella bocciatura e lo scenario, purtroppo, non è cambiato. Qualche piccolo avanzamento c'è stato, visto il tempo trascorso, ma il ministero dell'Ambiente, non è riuscito ad accompagnare la crescita del numero dei siti nazionali contaminati (15 nel 1998, 18 nel 2000, 41 nel 2001, 50 nel 2002), dimostrando un'inefficace gestione delle istruttorie aperte con le conferenze dei servizi nazionali. In alcuni casi addirittura l'iter istruttorio già avviato in sede locale, con l'inserimento nel Programma nazionale di bonifica, ha subito paradossalmente un forte rallentamento dei lavori.
L'ultima conferma di queste difficoltà è emersa anche dal dossier La chimera delle bonifiche pubblicato da Legambiente nel maggio 2005: solo il 7 aprile 2005, dopo quasi tre anni dall'inserimento del sito del Programma nazionale, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale l'ultimo decreto di perimetrazione dei 50 previsti, e cioè quello riguardante le aree del litorale vesuviano; sono davvero sporadici i casi in cui si è conclusa la caratterizzazione delle aree pubbliche e private inquinate; erano previsti, al novembre 2004, 144 interventi di messa in sicurezza d'emergenza, mentre alla stessa data solo 40 progetti definitivi erano stati approvati, di cui solo 21 con firma del decreto interministeriale.
Nuove tecnologie al palo e smaltimenti illeciti
(...) Chi come Legambiente sperava che con il varo del Programma nazionale potesse una volta per tutte svilupparsi nel nostro paese il settore produttivo delle tecnologie di bonifica è rimasto finora deluso. Sono infatti numerose le azioni di messa in sicurezza d'emergenza e permanenti, tra quelle previste o in atto. Per quanto riguarda le prime, va segnalato come in alcune realtà, una volta messe in pratica, abbiano scatenato un meccanismo vizioso che ha portato paradossalmente a un rallentamento dell'istruttoria successiva, come se contenere l'inquinamento diventasse in realtà un pretesto per realizzare la bonifica con molta più calma. Gli interventi di messa in sicurezza permanente poi sembrano diventare sempre di più una "via d'uscita" che viene purtroppo preferita, soprattutto nei siti occupati da rifiuti smaltiti illegalmente, alla bonifica vera e propria, vista la differenza di costi.
Anche quello del trattamento dei rifiuti è un capitolo sostanzialmente irrisolto. Vale la pena ricordare come il Dm 471/99 privilegi il trattamento in situ oppure on site proprio per ridurre i rischi derivanti dal trasporto e dal conferimento in discarica dei rifiuti e delle terre contaminate (anche alla luce delle sempre minori volumetrie disponibili nelle discariche per rifiuti pericolosi e non, o della difficoltà di reperire nuove aree per localizzare impianti ex novo).
Quando non si trattano nel sito, i rifiuti in questione prendono sempre più spesso la via dell'estero, soprattutto con destinazione la Germania: è il caso delle oltre 70mila tonnellate di sali sodici essiccati dell'Acna di Cengio, delle 19mila tonnellate di terre contaminate da cromo esavalente dalla Stoppani o dei 300mila metri cubi di terre contaminate da Ddt, arsenico e mercurio di Pieve Vergonte. E anche questo continuo riproporsi della soluzione al di fuori dei confini nazionali deve cominciare a far riflettere un po' tutti.
(...) I risultati di diverse indagini compiute dal 2002 ad oggi dalle forze dell'ordine, in particolare il Comando tutela ambiente dell'Arma dei carabinieri, non lasciano dubbi: nel nostro Paese si è già cominciato a trafficare e a smaltire illecitamente anche le terre e i rifiuti derivanti dalle operazioni di bonifica. L'effetto diretto dei trattamenti in situ consisterebbe proprio nell'evitare quella movimentazione che sta scatenando il business dei traffici illeciti di rifiuti derivanti da attività di bonifica. (...)
Informazione ai cittadini e chi inquina paghi
Alla luce dei problemi del Programma nazionale di bonifica, a partire dal suo lento procedere, Legambiente avanza una serie di proposte per la prossima legislatura. La prima riguarda il nodo cruciale della trasparenza e dell'accesso alle informazioni da parte dei cittadini: crediamo che sia davvero utile la realizzazione, da parte del ministero dell'Ambiente, di un unico portale on line sui siti d'interesse nazionale, da aggiornare almeno ogni 3 mesi. (...) Tra le altre misure, servono modifiche normative che faciliterebbero l'iter istruttorio in direzione di un "vero" risanamento ambientale delle aree inquinate, in maniera molto più efficace di quanto purtroppo preveda il Testo unico elaborato dal ministero dell'Ambiente.
In particolare si dovrebbe:
Specificare ancora meglio che l'inserimento della legislazione sulle bonifiche all'interno della normativa sui rifiuti non significa necessariamente che il risanamento ambientale deve passare attraverso il conferimento in discarica dei suoli contaminati;
Ribadire con più forza che le azioni di messa in sicurezza d'emergenza sono solo il primo passo per arrivare alla bonifica o, quando non questa non sia possibile, alla messa in sicurezza permanente dell'area inquinata;
Riaffermare l'importanza dell'approccio tabellare come riferimento per avviare l'iter di bonifica, senza farlo diventare un vincolo rigido nel definire gli obiettivi del risanamento, che possono essere elaborati sulla base di un'approfondita analisi del rischio, sotto il controllo del pubblico;
Prevedere un ritorno ai privati della responsabilità delle dichiarazione di avvenuta bonifica, conferendo alle amministrazioni provinciali il compito di controllarne la veridicità con le stesse modalità con cui si effettua la validazione dei dati da parte delle Agenzie regionali protezione ambiente (Arpa) in fase di caratterizzazione;
Prevedere una premialità, anche di tipo fiscale, per le imprese che applicano le tecnologie di bonifica innovative, privilegiandole agli interventi di messa in sicurezza permanente;
Alla luce delle difficoltà nell'organizzare e seguire le istruttorie nazionali, prevedere un ritorno della gestione del procedimento in ambito locale di tutte le Conferenze dei servizi, mantenendo una funzione di supporto, verifica e indirizzo da parte del ministero dell'Ambiente e degli enti tecnici nazionali preposti;
Chi inquina deve pagare e allora occorre fare in modo che l'uso del cofinanziamento statale previsto dal Programma nazionale per gli interventi con cui si deve risanare un'area pubblica (come le aree a mare, i laghi, gli alvei fluviali, etc.) venga seguito automaticamente dalla richiesta di risarcimento da parte dello Stato nei confronti di chi ha inquinato. (...)
Un superfund sul modello Usa
Per far fronte alla mancanza delle risorse economiche (...) andrebbero modificate le modalità di finanziamento di questi interventi, con la costituzione di un Superfund nazionale, sul modello di quello istituito negli Usa nel 1980, come proposto tra l'altro in diverse occasioni anche dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti.
Il nuovo modello di finanziamento dovrebbe distinguere gli interventi nei siti industriali di aziende in attività da quelli nei siti orfani: per i siti in attività o quelli dismessi da aziende ancora operative l'intervento sarebbe interamente a carico del responsabile della contaminazione, senza finanziamenti da parte dello Stato; per i siti orfani si dovrebbe fare ricorso al fondo nazionale, finanziato dal mondo dell'impresa, in proporzione alla pericolosità e all'impatto ambientale causato dallo specifico settore produttivo.
In attesa della sua definizione, il fondo per i siti orfani potrebbe essere attivato da subito, vincolando una parte delle entrate dell'ecotassa regionale che viene pagata dal 1995 per lo smaltimento dei rifiuti in discarica (...). Alla luce delle importanti indagini epidemiologiche compiute fino ad oggi è importante garantire da parte del Governo una continuità di risorse economiche per ulteriori monitoraggi del territorio nazionale, soprattutto nelle aree dove è maggiore il degrado ambientale, come i siti di interesse nazionale finora censiti. Vale la pena ricordare a tal proposito che sarebbe importante integrare le indagini epidemiologiche con i risultati delle caratterizzazioni, anche per attivare le eventuali richieste di risarcimento in danno.
Chiediamo infine al mondo imprenditoriale italiano di inaugurare una nuova "responsabilità sociale d'impresa", quella che dovrà portare, in tempi più brevi di quelli finora visti, alla bonifica delle aree inquinate del nostro Paese. Un new deal che si possa misurare anche sulla volontà di mettere in campo adeguate risorse economiche e umane necessarie per affrontare la sfida del risanamento ambientale nel nostro Paese, opzioni non sempre praticate fino ad oggi anche dalle aziende a prevalente capitale pubblico.
Una maggiore trasparenza, l'adozione di modifiche normative, l'istituzione del fondo nazionale per i siti orfani, il finanziamento di altre indagini epidemiologiche e un approccio diverso da parte delle imprese sono, a nostro avviso, gli ingredienti indispensabili per voltare pagina, una volta per tutte, nel settore delle bonifiche. Si creerebbero nuove professionalità e, soprattutto, posti di lavoro, cominciando magari dall'aggiornamento dei lavoratori che hanno perso o rischiano di perdere il posto di lavoro per la chiusura degli impianti produttivi; si costruirebbero nuovi impianti di trattamento; si potenzierebbe il sistema dei controlli ambientali e si risanerebbero decine di migliaia di ettari di suoli da riutilizzare a seconda dei casi per le nuove realizzazioni residenziali, commerciali o industriali. In questo modo verrebbe sfatata la tesi che le bonifiche dei siti inquinati italiani siano una chimera, un sogno irraggiungibile. Anche perché sono una realtà consolidata in altri paesi occidentali attraverso cui si muove una vera e propria economia, quella del risanamento ambientale.