Dolce come il miele di banlieue
L’idea è venuta al grafico Olivier Darné, già inventore del «partito poetico» - da La Stampa del 09.10.2006
09 October, 2006
<b>Domenico Quirico</B>
La natura è ancora capace di resistere all'assalto della città, sa beffarsi dei suoi trionfi planimetrici e cementizi. A Parigi, per esempio, insospettabile sfondo per una ecloga virgiliana. Sono ormai più di tre milioni, eppure sono quasi invisibili. Silenziose lavorano, si spostano, si riposano sui muraglioni di cemento stiepiditi dal sole, soprattutto producono: api di metropoli, anzi meglio api di banlieue. Si impinguano di tutte le linfe che la città nasconde nei suoi piccoli paradisi, sanno tracciare le rotte segrete della dolcezza in mezzo al fragore e all'inquinamento urbano. I loro alveari sono sistemati, provocatoriamente, proprio in quelle grandi onde di cemento che l'architettura ha disseminato nelle rabbuiate caligini della periferia. E producono, a chili, un succo dolce esotico antico. Perchè il miele di queste api urbanizzate che si chiama orgogliosamente «beton», cemento, è forse il migliore del Paese, premiato ai concorsi agricoli, dove si intrufola accanto alle secolari medaglie che ornano la Lozere e il resto della dolce Francia agricola e contadina.
La apicoltura parigina ha una faccia e un nome: Olivier Darné. Tipo difficile da classificare: artista, leader di un «partito poetico», inventore di eventi urbani e di performances ecologiche, una di quelle genialità, di quelle fantasie dissacratrici del luogo comune che le banlieues producono chete chete, sciogliendo nuovi mondi all'immaginazione. Come definire questa sua idea di importare milioni di api a Parigi, creare del nettare urbano, trasformare la città in un immenso fornitore di polline? Questo ex grafico trentacinquenne incappato per caso nella seduzione di un trattato d apicoltura a metà degli anni novanta e autoproclamatosi «graficoltore», ha cominciato piazzando gli alveari nella sua casa, a due passi dallo Stade de France, a Saint-Denis.
Le sue operaie sopravvivevano e producevano. Perchè non provare, allora? Così altri alveari li ha sistemati sotto i tetti del municipio di Saint Denis, dopo opportuna delibera comunale; anche loro, i consiglieri, affascinati da quella intrusione campestre e intrigati dalla scommessa di dimostrare che lo spazio urbano può accogliere un insetto vecchio di più di cinquanta milioni di anni. E poi in fondo un alveare non è una grande metafora della urbanità, dei suoi ritmi affannosi, non ci parla della città? Così Darné, che nei giorni scorsi ha invitato la capitale a scoprire il «suo» miele esponendolo davanti al Centre Pompidou come una gustosa opera d'arte, ha moltiplicato gli alveari; gli abitanti dei quartieri si sono improvvisati apicoltori, è nata una fitta rete di solidarietà, di combinazioni, di interessi, le api hanno sparso in giro il polline delle loro fascinazioni. Perchè il miele nelle loro culture ha un sapore simbolico forte, è un legame tra gli uomini, profuma di fierezza.
La scoperta maggiore è stato il paradosso della città che difende le api senza volerlo, perchè per loro è meno pericolosa e ostile. Le operaie, che muoiono in campagna decimate dai pesticidi, come se avessero preso coscienza di questa realtà, producono miele in quantità quattro volte maggiore. Per loro che lavorano furiosamente per i 45 giorni della loro vita prima di morire, la banlieue è anche ricca di sapori nuovi: perchè i magrebini e gli africani, che sono la maggioranza della popolazione, piantano nei piccoli orti ricavati accanto al cemento, il loro frammento di una terra perduta, i semi e i pollini che ogni estate riportano dai loro paesi. E sono questi pollini che danno al miele «beton» l'esotico sapore, che sa di palme e di «bled». Il miele riflette la diversità etnica della citè. Non è in fondo un miracolo?