La sfida del clima la voce dell’Europa
da L'Unità del 10.04.2007
10 April, 2007
<b>Gianni Mattioli Massimo Scalia *</b>
La maratona pasquale dell'Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) a Bruxelles non ha portato scenari particolarmente innovativi rispetto a quelli che già da vari anni sta proponendo il gruppo dei tecnici designati da oltre cento governi in seno alle Nazioni Unite. Pure essi hanno avuto molto più risalto; sicuramente nella stampa italiana, che accanto alla sottolineatura delle previsioni e delle conseguenze più drammatiche è stata costretta, quasi tutte le testate più importanti, a non relegare la questione - magari concedendo spazi crescenti come nell'ultimo anno - nel folklore della «natura che si ribella», ma evidenziando gli aspetti politici, di duro scontro politico, che hanno portato poi a un testo finale. A dir la verità gli scontri sono stati il pane quotidiano dell'Ipcc dal 1988, anno in cui fu insediato, fino all'entrata in vigore, due anni fa, del protocollo di Kyoto; ma restavano chiusi all'interno di quel tavolo e degli addetti ai lavori e, quando divulgati, proposti eminentemente come divergenze tra differenti posizioni tecnico-scientifiche, al più come generica metafora del rapporto Uomo-Natura.
Ma nell'ultimo anno le cose sono cominciate a cambiare decisamente. L'Europa sta di fatto assumendo un ruolo guida con l'emanazione del libro «verde» per l'energia (marzo 2006) e gli impegnativi obiettivi che lì venivano indicati in termini di risparmio energetico e fonti energetiche rinnovabili.
Il mondo anglo-sassone veniva sconvolto a novembre dal rapporto predisposto da Nicholas Sterne per Blair sull'impatto economico prevedibile a causa del mutamento climatico; il sindaco di Londra, Ken il «rosso», emanava il piano per la riduzione di CO2; Arnold Schwarzennegger faceva il controcanto a Bush e il presidente degli Stati Uniti era costretto a fare anche lui alcune mosse, come l'accordo di poche settimane fa sui biocarburanti con il presidente «operaio» del Brasile, Lula (Brasile e Stati Uniti detengono il 70% della produzione mondiale). Anche la parte «sassone» di quel mondo reagiva alla grande; basti pensare alla mediazione che la «ragazza dell'Est», la democristiana Angela Merkel, riusciva a condurre a un punto molto alto (con i recalcitranti Paesi dell'Est) nella riunione di marzo dei capi di Stato e di governo della Ue: il rafforzamento degli obiettivi del libro «verde», con addirittura la copertura del 20% del fabbisogno energetico totale, e non della sola parte elettrica che ne rappresenta si e no un terzo, a carico delle fonti energetiche rinnovabili.
Tutto questo - Oscar al documentario di Al Gore incluso - ha alla sua base, è nostra convinzione più volte espressa, gli appelli rivolti dalla comunità scientifica al G8 di Gleneagles del 2005 e a quello di San Pietroburgo l'anno scorso. Al contrario che su tutti i temi più scottanti - dagli Ogm al nucleare, dalle staminali all'eutanasia - dove appare sempre diviso, è la prima volta che il mondo scientifico - le Accademie delle Scienze dei G8, Cina, India e Brasile - si è rivolto con una sola voce ai decisori politici più potenti indicando le sfide poste dai cambiamenti climatici e il risparmio energetico come priorità d'azione. I risultati si cominciano a vedere.
«Altro che avere le carte in regola per cercare di vincolare Stati Uniti e Cina all'applicazione di Kyoto prima del 2012! Quella dell'Europa su energia/ cambiamenti climatici è una vera no regret policy». Così, con toni decisamente malmostosi, alcuni economisti «neo-atlantici» nostrani ribattono alle emergenze che il legame energia/cambiamenti climatici comporta in termini di nuove politiche economiche e industriali, ma anche finanziarie. E il corruccio è dovuto al fatto, appunto, che a predicare la «rivoluzione» energetica non è più il solo fronte ambientalista, ma le determinazioni che la Ue ha assunto al livello più alto. In buona sostanza il loro ragionamento è: l'Europa con questa politica rigorosa in nome della lotta all'effetto «serra» si propone in realtà come leader dell'innovazione tecnologica, cercando di indebolire l'economia americana con impegni onerosi, cui essa dovrebbe sottostare con svantaggi per lei immediati in nome di un futuribile «bene» collettivo.
C'è del vero in questa analisi, anzi vorremmo che per davvero ci fosse un «disegno intelligente». E non per generico antiamericanismo, ma perché ciò che a Bruxelles ha assunto connotazioni catastrofiche sia invece riguardato come una grande occasione da questo punto di vista, dell'identità da dare all'Europa, del suo ruolo nel mondo. Al vecchio continente è già stato riconosciuto un modello sociale decisamente più inclusivo - certo, «nessuno è perfetto» - che non quello dell'unica potenza imperiale rimasta, un modello che può essere esempio, se non aspirazione, per i Paesi delle economie emergenti. Un'Europa leader della lotta ai cambiamenti climatici potrebbe muoversi nel segno di un alt allo scambio ineguale e alla rapina delle risorse ai danni del Sud del mondo, per azioni vere e globali contro la povertà e la fame, che sono l'altra faccia degli sconvolgimenti del clima, come il movimento new global ha da tempo additato.
*Movimento Ecologista