Come vincere la sfida dei rifiuti
Il conflitto tra la cultura della crescita e la cultura della sobrietà. Finché vince la prima non c'è speranza - Guido Viale da La Repubblica del 05.03.2008
12 March, 2008
<font size="1"><b><i>Guido Viale</i></b></font>
Il problema dei rifiuti non può essere isolato dal suo contesto, cioè
dalle produzioni e dai prodotti che li generano, dai modi del loro
consumo. Alla luce del contesto il tema rifiuti si colloca all'interno
di una contesa tra culture diverse in cui le posizioni dei contendenti
si radicano entrambe nell'ambito della modernità; ma con esiti sempre
più divergenti. Ritroviamo la stessa contrapposizione tanto sulle
grandi questioni dell'umanità, come guerre o cambiamenti climatici,
quanto in quelle minute della vita quotidiana – compresa la produzione
di rifiuti – il cui effetto cumulativo decide il destino del pianeta
Da un lato abbiamo la cultura della crescita, affidata alla tecnica e
al mercato, più o meno corretto con interventi "politici", ma
anch'essi di natura tecnica; non a caso chiamati sempre più spesso
"manovre". Qui, alle aspettative sullo sviluppo tecnologico viene
affidato anche il rimedio ai "danni collaterali" prodotti dalla
tecnica: alla superiorità nella tecnologia bellica il compito di
garantire l'ordine mondiale messo in forse dalla disseminazione di
armi micidiali; all'energia nucleare, alla cattura del carbonio,
all'idrogeno, il compito di neutralizzare i cambiamenti climatici
provocati dai combustibili fossili, il cui utilizzo non deve conoscere
tregua per non ostacolare la crescita. L'assunto è semplice: la
tecnologia ci ha dato il benessere; la tecnologia rimedierà ai suoi
danni collaterali.
Nella vita quotidiana la cultura della crescita è promozione del
consumo per il consumo; del consumo per mandare avanti la macchina
produttiva; del consumo per sostenere occupazione e redditi. Consumo
di beni sempre più inutili mentre miliardi di uomini mancano del
minimo necessario. Il "danno collaterale" del consumo è costituito dai
rifiuti, perché tutto ciò che viene prodotto è destinato a
trasformarsi in rifiuto in un lasso di tempo sempre più breve. Quindi,
tanto vale produrre direttamente rifiuti: l'usa-e-getta (nel cui
novero rientrano tutti gli imballaggi "a perdere") non è altro che
fabbricazione di rifiuti destinati a qualche effimera funzione per il
tempo più breve possibile.
Ma la cultura della crescita ha sempre una "tecnologia" pronta per
rimediare a tutto: Per i rifiuti, prima c'era la discarica, più o meno
"controllata"; poi l'inceneritore (il sogno di "mandare in fumo" tutto
ciò che non ci serve); poi il "termovalorizzatore" (la produzione di
energia più costosa mai comparsa sulla Terra: il termovalorizzatore
manda in fumo con rendimenti energetici infimi non solo quello che
brucia, ma anche tutta l'energia consumata per produrre i materiali
che usa come combustibile e che potrebbero invece venir riciclati);
infine il "ciclo integrato" dei rifiuti, inframmettendo tra pattumiera
e inceneritore altre macchine per separare il secco dall'umido e "un
po'" di raccolta differenziata; ma non troppa; altrimenti il
termovalorizzatore si spegne.
Il secondo contendente di questa contrapposizione è la cultura della
sobrietà. Non è organizzata, né sponsorizzata, né roboante; ma in
qualche modo si radica in ciascuno di noi quando realizziamo che la
rincorsa ai consumi è soprattutto una corsa alla produzione di rifiuti
che rende tutti più poveri e intasa il mondo. Anche la cultura della
sobrietà è figlia della modernità: non è frutto della penuria, della
nostalgia per il passato o di una volontà di espiazione; bensì di
saperi che ci guidano a usare le risorse in modo ragionevole. Non ha
inventato macchine volanti, ma il deltaplano, che permette di
realizzare il sogno di Icaro sfruttando i movimenti dell'aria; o la
bicicletta, che moltiplica il rendimento dello sforzo che si fa per
camminare; o il trasporto flessibile che combina velocità, comodità e
risparmio di spazio, di risorse e di energia. Non ha realizzato la
fusione a freddo – la pietra filosofale che trasformava il piombo in
oro e oggi dovrebbe trasformare l'acqua in idrogeno – ma i pannelli
fotovoltaici e le pale eoliche, che possono fornire all'intero pianeta
tanta energia quanta ne basta per una vita moderna e agevole. Ma solo
in un quadro di contenimento e perequazione nell'utilizzo delle
risorse.
Meno consumi producono meno rifiuti; ma a ridurre la produzione di
rifiuti sarà soprattutto quello che si consuma e il modo in cui lo si
fa: le nostre scelte di acquisto. Cioè: meno imballaggi superflui
(oggi sono il 40 per cento dei rifiuti urbani in peso e il 70-80 per
cento in volume), cominciando da bottiglie e flaconi a rendere
cauzionati; meno prodotti usa-e-getta (un altro 10 per cento):
l'usa-e-getta ha sostituito per una frazione di secolo prodotti che
prima si usavano fino alla consunzione; ma oggi ci sono sostituti dei
prodotti usa-e-getta che costano e inquinano meno e sono più comodi e
igienici di tutti i loro predecessori: nuovi pannolini lavabili o
lavastoviglie che evitano il ricorso a piatti e bicchieri di plastica
nelle mense. Più prodotti venduti sfusi ("alla spina"), a partire dai
detersivi; meno sprechi di avanzi alimentari, per lo più frutto di una
spesa fatta senza programma, come ricordava pochi giorni fa Carlo
Petrini; più compostaggio domestico dei rifiuti organici (ovunque si
disponga di spazi adeguati, e lo può essere anche un balcone);
adozione di prodotti tecnologici modulari (computer, hi-fi, cellulari,
elettrodomestici), in modo che per adeguarli ai progressi della
tecnologia non sia necessario cambiare tutta l'attrezzatura, ma solo
le componenti logore od obsolete; una moderna regolazione e
incentivazione del mercato dell'usato, per non mandare in discarica o
in fumo quello che milioni di persone sono ancora disposte a usare. E
poi, ma solo poi, raccolta differenziata capillare porta-a-porta,
responsabilizzando gli addetti perché intrattengano un rapporto
diretto con gli utenti; impianti decentrati di compostaggio e di
recupero dei materiali; incentivi agli acquisti ecologici (green
procurement) per enti pubblici e imprese, per fornire un mercato ai
materiali riciclati.
Sono cose semplici, alla portata di cittadini, enti locali e imprese
grandi o piccole, ma tanto più urgenti, anche ricorrendo a misure
straordinarie, quanto maggiore è l'emergenza rifiuti che soffoca un
territorio. Intervenire alla fonte, in base alla gerarchia delle
priorità indicata oltre trent'anni fa da Ocse ed Europa: riusare,
ridurre, riciclare, e poi smaltire – "termovalorizzatore" e discarica
– solo quello che rimane. Ma se si fa tutto ciò, che cosa resta da
bruciare in un "termovalorizzatore"? Quasi niente: non l'acqua (60-70
per cento) contenuta nel residuo organico sfuggito alla raccolta
differenziata; non la carta talmente bagnata da non poter essere
conferita insieme a quella riciclabile; non il vetro e le lattine che
invece di bruciare assorbono calore. Ma neanche quel poco di plastica
che ne resta dopo una buona raccolta differenziata (che al 2012, per
decisione coincidente – caso quasi unico – degli ultimi governi sia di
destra che di sinistra, dovrà raggiungere l'obiettivo del 65 per
cento). Perché la plastica è fatta con il petrolio e non potrà più
essere assimilata a una fonte di energia rinnovabile e fruire di
quegli incentivi che in passato hanno fatto ricchi i gestori degli
inceneritori – primo tra tutti quello famosissimo di Brescia – a spese
dei fondi pagati da tutti noi per promuovere l'energia del sole, del
vento, dei residui dei boschi e delle colture bioenergetiche.
E allora? Allora, anche nel campo dei rifiuti, la cultura della
sobrietà ha soluzioni, anche tecnologicamente molto sofisticate, e
tutte già sperimentate, per raggiungere risultati che la cultura della
crescita non riuscirà mai a conseguire, immobilizzata com'è in attesa
di inceneritori che sarà sempre più difficile e costoso realizzare e
soprattutto far funzionare senza incentivi (negli Stati Uniti non se
ne costruiscono più da 15 anni, mentre in molte città del Nord America
la raccolta differenziata ha raggiunto il 60 per cento in poco più di
un anno). La crisi drammatica della Campania deve essere l'occasione
per un ripensamento profondo e generale su queste alternative.