“Imballarò”: puntata nel mondo dell'eco- packaging con le Officine Sistemiche
Uova sode tagliate a fette, pressate e impacchettate a forma di salame, confezioni verdi che di verde hanno solo il colore, o meglio, il colorante; etichette indecifrabili, prodotti km 0 in buste che hanno fatto il giro del mondo. Intervista alla Cooperativa Officine Sistemiche per capire il mondo degli eco imballaggi, dove, per fortuna, c'è anche qualche bella sorpresa
09 August, 2011
Uova sode, senza guscio, stivate in un contenitore a base rettangolare sottovuoto (avvistate nell’aeroporto di Boston, Massachusetts); banana ancora “bucciata” ma pressata in un doppio imballaggio: sotto, un vassoio costituito da suggestiva foglia verde – ovviamente in plastica – e tutto intorno, un sacchettino trasparente, sempre in plastica (meraviglie dal Giappone); pezzetti di formaggio a piccoli cubi di pochi cm di spigolo, religiosamente impacchettati uno per uno (non facciamo nomi, si trovano tranquillamente in giro).
Il Piero Angela del futuro saprà con cosa giocare, sempre ammesso che gli si lasci un pianeta in cui esercitare la professione. Il packaging del 2000 d.C. è una vera jungla di prodotti di ogni forma e dimensione: alcuni di questi lasciano a bocca aperta per quanto sono ingegnosi. Altri… lasciano a bocca aperta punto.
Un discorso a parte meritano proprio i cosiddetti eco-imballaggi: confezioni che oltre ad essere funzionali, pratiche ed esteticamente accattivanti devono soprattutto soddisfare i criteri di sostenibilità ambientale, inquinando il meno possibile e prestandosi a un possibile riutilizzo, magari in altra veste. Ma non basta: perché se per impacchettare dei biscotti astigiani la confezione me la faccio spedire da Hong Kong, viene da chiedersi se non sia meglio del materiale un po’ meno innovativo ma che non abbia già consumato quanto la mia auto in tre settimane.
Per orientarsi nella selva dell’eco-packaging abbiamo chiesto aiuto alle Officine sistemiche: una cooperativa di professionisti nel campo del design, grafica e architettura che ha l'obiettivo di divulgare la cultura dell’approccio sistemico come veicolo di sostenibilità ambientale, sociale, economica e sensoriale.
Per approccio sistemico si intende “un design che tenga conto di tutto il ciclo di vita dei prodotti, dove nascita, morte e rinascita sono inserite in una logica produttiva di tipo aperto che mima i processi naturali”, e che va di pari passo con i concetti di “Buono”, “Pulito” e “Giusto”.
Un prodotto deve essere buono, e cioè gustoso, ma non solo: buono anche in senso etico, e dunque rispettoso del territorio da cui proviene. Deve essere pulito: trasparente in tutte le sue fasi di produzione; chi lo acquista dovrebbe sempre trovare risposta a queste domande: come sono state reperite le materie prime? Chi e come le ha lavorate? Come funziona la distribuzione? Infine, il prodotto deve essere giusto: posso mangiare la cosa più buona del mondo, ma il gusto non è lo stesso se chi ha lavorato per produrla fa la fame.
Alle nostre domande hanno risposto Franco Fassio (Università degli Studi di Scienze Gastronomiche e Officine Sistemiche), Clara Ceppa e Gian Paolo Marino (Dipartimento di Progettazione Architettonica e Design del Politecnico di Torino e Officine Sistemiche).
Cominciamo da un materiale che è ormai entrato nella nostra quotidianità ma che fa ancora discutere: la bioplastica. Bottiglie, sacchetti, piatti e posate: il biopolimero è davvero ecologico?
Il punto è questo: a meno che non ci troviamo davanti a qualcosa di tossico o fortemente inquinante, un materiale non è buono o cattivo di per sé. Bisogna sempre valutare la soluzione migliore caso per caso, tenendo conto di tutti i fattori: il risultato che vogliamo ottenere con un particolare tipo di imballaggio e la valutazione dell’intero ciclo di vita del prodotto. La bioplastica è sicuramente una strada da seguire per il futuro, perché se correttamente destinata al compostaggio, presenta indiscutibili vantaggi. La ricerca andrà avanti, e riteniamo ci siano ampi spazi di miglioramento, oltre a questioni ancora aperte. Per esempio, il terreno è pronto a ricevere tutta questa quantità di biopolimeri? Come si può tutelare il mondo agricolo per assicurarsi che non si arrivi ad un rischio di monocoltura destinata alla produzione di biopolimeri e non all’alimentazione? Perché una cosa è utilizzare gli scarti dell’agricoltura, un’altra destinare intere piantagioni. Ad oggi le grandi aziende che producono bioplastica sono controllate e certificate, ma bisogna stare attenti. Un altro aspetto da considerare è la possibile deterioramento del prodotto all’interno del liquido che contiene: le aziende devono poter dimostrare che ciò non avviene, nemmeno sotto il sole o in condizioni ambientali particolari.
Anche se ad oggi non si può affermare che la bioplastica sia sempre l’alternativa più ecologica, resta un materiale estremamente interessante, che trova applicazione anche fuori dal settore alimentare. Il primo esempio che mi viene in mente è il tee, il supporto che si usa per tenere ferma la pallina da golf prima di colpirla. Nessuno ci pensa mai, ma avete idea di quanti di questi oggetti restano sul campo dopo ogni partita? E allora perché non farli biodegradabili.
Restiamo in tema di biodegradabile: a sette mesi dall’entrata in vigore del bando dei sacchetti di plastica è ancora tutto nel caos. Qual è la vostra opinione sulla faccenda?
Partiamo dal presupposto che la dipendenza dal petrolio deve assolutamente finire. Ormai lo stiamo cercando in luoghi sempre meno accessibili, sul fondo degli oceani, in condizioni in cui diventa sempre più difficile contenere i danni se qualcosa va storto. Non possiamo permetterci un altro caso BP. Detto questo, forse si sarebbe potuto pensare ad una soluzione diversa, magari una tassazione straordinaria, come ha fatto l’Irlanda, per scoraggiare il consumo acritico di usa e getta. Le nostre nonne si sono sempre arrangiate benissimo con borse e retini, perché noi no?
C’è poi un ultimo aspetto da considerare: la mancanza di informazioni generata dal caos normativo. La gente non ha assolutamente chiaro dove deve buttare i diversi tipi di sacchetto e rischia di danneggiare sia la raccolta della plastica che il compostaggio.
Questo ci porta diritti ad un altro problema, e cioè quello delle etichettature dei prodotti da imballaggio. Ad oggi l’indicazione di smaltimento sul packaging per le aziende è esclusivamente volontario, perfino secondo il diritto europeo. Possibile che non si riesca ad uniformare le etichette a livello nazionale?
Ma non solo nazionale! Questo è un problema enorme, che va gestito a livello internazionale, anche perché le materie prime usate per produrre gli imballaggi arrivano da tutto il mondo, così come gli stessi imballaggi finiti. E’ fondamentale avere un’etichettatura chiara, che accanto alle specifiche tecniche riporti anche un simbolo immediatamente riconoscibile per i non addetti ai lavori. E invece regna il caos. Ma d’altronde non stupisce: la mafia internazionale ha sempre fatto affari d’oro sulla gestione dei rifiuti e il mercato nero è troppo potente. La situazione è davvero grave, e non riguarda solo i prodotti da imballaggio, forse il peggio è proprio il packaging terziario: l’80% dei pallet usati in Italia proviene dall’estero, e gran parte di questi da zone dell’Est Europeo ancora contaminate dalle radiazioni. Sui pallet vengono caricati i prodotti alimentari, e come reagiscono le confezioni (magari bio ed ecologiche) al contatto? Chi ci assicura che il cibo all’interno non venga inquinato? Ma anche senza spingersi troppo in là: bastano i solventi chimici con cui si tratta il legno…
Per fortuna oggi ci sono anche degli esempi positivi, aziende che adottano un’etichettatura molto chiara e leggibile e pensata proprio per facilitare la separazione delle varie parti costituenti ai fini della raccolta differenziata. (NdR: Visto che questa volta si parla di grandi aziende per qualcosa di positivo, citiamo l’esempio di Barilla, Pavesi e Coop, sperando nel contagio…)
L’etichettatura è una cosa seria, e non riguarda solo il fine vita. Io che acquisto un prodotto devo poter sapere da dove arriva, imballaggio compreso, che è molto più difficile da tracciare. Questo vale soprattutto per i prodotti che oltretutto si propongono sul mercato come “etici” e “biologici”; se la confezione ha fatto il giro del mondo per arrivare fino a me, oltretutto senza nessun controllo, il km zero dove va a finire? L’imballaggio come il prodotto deve rappresentare il territorio, privilegiando materie prime locali.
Questo per noi è un tema di grandissima importanza, come mostra l’impegno preso assieme ai Presidi Slow Food. Nel corso dell’ultima edizione del Salone del Gusto abbiamo premiato il Presidio Pomodoro Regina di Torre Canne proprio per la scelta fatta a livello di “packaging”: un semplice filo di cotone che lega i pomodori in un grappolo, la cosiddetta ramasola; una bella soluzione, pratica, ecologica e che recupera una tradizione, quella della coltivazione del cotone, che è presente sull’area già da fine Ottocento. La possibilità di utilizzare imballaggi di provenienza locale – sia come materie prime che come tipo di lavorazione – è una grande opportunità per le piccole imprese. Non solo c’è un valore culturale aggiunto, ma spesso si risparmia e si supplisce alla difficoltà di reperire gli imballaggi ecologici innovativi che in alcune zone d’Italia più rurali (il Sud Italia soprattutto) non si trovano quasi mai. E’ importante seguire le aziende di piccole dimensioni nella scelta del packaging, perché spesso è proprio qui che si riscontrano più lacune informative.
Vi capita spesso di imbattervi in prodotti da imballaggio spacciati per ecologici che poi si rivelano grandi “bufale”?
In continuazione. Ne abbiamo a volontà, le abbiamo anche raccolte per uno studio del nostro gruppo di ricerca. C’è davvero di tutto: non facciamo nomi, ma ci sono un mucchio di prodotti che si travestono da eco imballaggi semplicemente colorandosi di verde o marrone, imitando i colori della natura. Addirittura ci ricordiamo dei biscotti che erano incartati in un banalissimo poliaccoppiato, che però era stato stampato con un disegno che ricordava la grana della carta riciclata.
La gente non ci pensa, d’istinto si fida di un pacchetto che suggerisce qualcosa di naturale e non sta a guardare realmente di cosa è fatto. Non è solo una questione di colore: se la plastica viene piegata e ondulata può essere facilmente scambiata per cartone riciclato.
Passiamo ai cosiddetti prodotti “per single”: le monoporzioni sono sempre da evitare? Non c’è il rischio che comprando una confezione maxi, “formato famiglia” alla fine la si butti via quasi intonsa, dopo averla lasciata ammuffire in frigorifero indisturbata?
Dipende molto dalla natura del consumatore, ed è sempre questione di equilibrio: devo scegliere ciò che è più adatto a me, e dunque la soluzione migliore a livello ideale è sempre il prodotto sfuso. Nessun imballaggio, il contenitore me lo porto io da casa, e compro solo la quantità che mi serve. Se però non lo posso fare, bisogna accendere il cervello e avere un po’ di buon senso. Comprare ciò di cui si ha bisogno, senza riempirsi il frigorifero in modo compulsivo, scegliendo di volta in volta cosa è meglio per me.
Ci togliete una curiosità? Ma questi maledetti guanti monouso del supermercato servono a qualcosa o sono il parto di una mente malata?
Sta diventando una follia. La sicurezza alimentare è fondamentale, è chiaro, ma non va portata agli estremi. Nei supermercati stiamo arrivando a delle scene pazzesche, motivate da ragioni che non hanno alcun senso. Se voglio comprarmi un frutto solo, che magari oltretutto ha la buccia protettiva per natura, per prenderlo devo per forza far fuori un sacchetto e un guanto! Ma per favore… Oltretutto la gente arrivata a casa lava comunque frutta e verdura, che senso ha? Ci siamo talmente abituati al cibo asettico che non abbiamo più anticorpi. Per forza poi spuntano le allergie alimentari più improbabili.
Questa ossessione si riflette anche nell’estetica del packaging: ci sono mele che già di loro sono impressionanti, tirate a lucido come quella di Biancaneve, che poi vengono incapsulate una per una in sfere di plastica trasparente che sembrano astronavi. L’idea è questa: il prodotto è perfetto, protetto, senza difetti, completamente igienizzato.
Insomma, sterile. Ma a qualcuno viene ancora voglia di mangiarselo?
Evidentemente sì. Dal punto di vista commerciale funziona. Stiamo perdendo il contatto con i prodotti della terra, con i gusti genuini. Ci rassicura di più una cosa che non ha gusto ma nemmeno germi. E poi ci abituiamo a qualunque assurdità. Esperienza di vita vissuta: tentativo di acquistare delle pesche in un supermercato. Le pesche erano di due qualità diverse, ma avevano esattamente lo stesso prezzo al kg. Segue tentativo di infilarle nello stesso sacchetto, per non sprecarne due diversi. Tentativo bloccato alla cassa: "Non è possibile. Per ogni tipo di pesca un sacchetto a parte, grazie!".
Cooperativa Officine Sistemiche
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