Assobioplastiche: “Preoccuparsi dello smaltimento, o facciamo solo eco-marketing”
Marco Versari, Presidente Assobioplastiche, commenta il ddl sacchetti, la situazione del mercato dei biopolimeri e l’approccio che deve avere il settore: “Bisogna coniugare l’uso sostenibile delle risorse con la gestione sostenibile dei rifiuti. Altrimenti cambiamo tutto per non cambiare nulla”
27 September, 2011
Partiamo dal ddl sacchetti. Il limite di spessore per la commercializzazione dei sacchetti non biodegradabili indicato dal Ministero (400 micron) è stato criticato aspramente, sia dai produttori di plastica tradizionale che da quelli che utilizzano additivi. Le bioplastiche non sono ovviamente toccate in modo diretto, ma vorremmo chiederle comunque la sua opinione.
Il limite di 400 micron non è ragionevole, e metterebbe fuori gioco aziende che invece si sono già attrezzate per la produzione di buste riutilizzabili, anche in polipropilene, con uno spessore di circa 150 micron. Ritengo che 100 micron possa essere un’indicazione sensata.
L’entrata in vigore del bando il 1° gennaio 2011 avrà dato una svolta notevole al mercato delle bioplastiche in Italia. Di che incrementi stiamo parlando?
E’ decuplicato. Ma andiamo con ordine: le bioplastiche in Italia sono apparse tra il ’92 e il ’93, e cioè gli anni delle prime raccolte differenziate sul territorio. Non a caso, ovviamente: il sacchetto di bioplastica cominciò a diffondersi assieme alla raccolta dell’umido organico. Dai primi anni novanta in poi la crescita è stata graduale e costante, parallela alla diffusione della raccolta differenziata. Coop cominciò nel 1996 a proporre la bioplastica compostabile in alternativa ai sacchi in propilene. La finanziaria del 2007 tracciò le basi per il divieto di commercializzazione, che dopo vari ritardi è entrato in vigore il 1° gennaio di quest’anno: è chiaro che di lì in poi si è proditta una forte discontinuità nel mercato. I produttori di bioplastica hanno visto la domanda crescere dieci volte tanto praticamente dalla sera alla mattina. Il mercato non era pronto per una rivoluzione così repentina, e infatti nei primi mesi che seguirono all’attuazione del bando i produttori fecero davvero fatica a star dietro alle richieste dei distributori. Ora posso dire con tranquillità che non c’è più alcun problema di approvvigionamento e che il mercato si è riassestato. In Italia ci sono almeno una decina di grandi produttori, la reperibilità dei biopolimeri non è più un problema.
Sembrerebbe esserlo per molti piccoli commercianti, ma non per mancanza di materie prime. Da quanto abbiamo avuto modo di capire la bioplastica compostabile per ora è rimasta sostanzialmente appannaggio dei supermercati e delle grandi catene...
Questo è un punto delicato: da un lato è innegabile che oggi sul mercato si trovino soluzioni più a buon mercato, che con i prodotti che noi rappresentiamo non hanno nulla a che vedere, ma che magari agli occhi dei più possono sembrare analoghi. Ad oggi il mercato dei monouso alterantivi alla plastica tradizionale è praticamente diviso a metà fra biopolimeri compostabili e prodotti additivati. Ma questo nasce dalla non chiarezza e dalla scarsa informazione. Sia chiaro, questo non è un problema solo italiano: in tutta Europa e negli Stati Uniti c’è una grande discussione in corso che verte proprio su questo tema: la definizione di bioplastica. Una definizione c’è ed è chiara, è quella data dalla UNI EN13:432, standard riconosciuto a livello internazionale. Non a caso la Spagna, sulla scia italiana, ha fatto riferimento alla stessa norma. Detto questo, la grande distribuzione organizzata ha sistemi di controllo qualità più severi e più attenti di quelli che si possono pretendere da un piccolo commerciante. Ma è proprio per questo che bisogna essere precisi, sulle norme, sui prodotti e soprattutto sul fine vita: questo per noi è un punto fondamentale, che sta alla base del concetto di bioplastica. Lo smaltimento di un prodotto conta tanto quanto la materia prima di cui è fatto, se non di più. A cosa serve proporre un prodotto di origine “bio” se poi non ci assicuriamo che anche il suo smaltimento lo sia davvero? Se ci dimentichiamo del fine vita cambiamo tutto per non cambiare niente, detto in modo “gattopardiano”.
Appunto: ci sono prodotti compostabili che hanno ottenuto tutte le certificazioni necessarie ma che rischiano di vedersi rimbalzare in discarica perché gli impianti non sono ancora adeguati a riceverli. Vi risulta?
Sì, è un problema che esiste, ma che riguarda la tipologia di manufatti, non il materiale. La bioplastica è nata con due funzioni principali: il contenimento degli alimenti e il trasporto dei rifiuti, oggetti che sono riconoscibili senza equivoci da qualunque tipo di impianto. Non si può dire lo stesso per tutti i tipi di prodotto, e dunque può capitare che ci siano problemi come quello che mi ha citato. Ma non è solo una questione di impianti: conta molto anche l’aspetto comunicativo, oltre al buon senso. Prendiamo l’esempio dei piatti usa e getta: un conto è l’organizzazione di una sagra, una festa, un grande evento, che sceglie consapevolmente la bioplastica per poter poi riciclare avanzi e stoviglie nell’umido organico. Ben diverso è prendere lo stesso tipo di piatti monouso, piazzarli sugli scaffali dei supermercati assieme a quelli tradizionali e pretendere che tutti sappiano dove gettarli, magari senza nemmeno preoccuparsi dell’aspetto comunicativo.
Come saprà a breve le stoviglie di plastica potrebbero essere incluse nella filiera del riciclaggio, cosa che fino ad oggi non era mai avvenuta per un questione di contributi ambientali. Come ci ha appena ricordato la bioplastica viene usata principalmente per imballaggi e stoviglie usa e getta: sarà il caso di fare una campagna comunicativa ad hoc per spiegare che i piatti compostabili non vanno infilati nella plastica?
No, ma principalmente per la questione a cui accennavo prima: per ora questi prodotti restano un po’ “di nicchia”, non sono ancora entrati a far parte della quotidianità del grande pubblico, se non per i sacchetti appunto. E anche per quanto riguarda questi ultimi, la quantità di bioplastica finita erroneamente nel circuito del riciclo plastica è bassissima, non certo tale da destare allarmi. Detto questo, riteniamo comunque fondamentale che i consorzi di recupero – ai quali fra l’altro stiamo pagando contributi – si impegnino al massimo per lanciare campagne informative forti, che facciano crescere la consapevolezza fra i consumatori, che non devono avere dubbi su cosa vada nella plastica, cosa nel compost e cosa nell’indifferenziato.
Questo è un nostro “pallino”: i sacchettini per l’ortofrutta del supermercato, che invece sono stati completamente ignorati dal bando, pur essendo i sacchetti usa e getta per eccellenza. A parte qualche raro e coraggioso retino, perlopiù i supermercati continuano a imporre bustine leggerissime di plastica tradizionale. Come mai le bioplastiche lì non sono arrivate?
Non nascondo che sono già stati fatti parecchi blind test, in cui probabilmente siamo incappati tutti una volta, senza farci caso. L’idea c’è, le prestazioni sono ottime, ma resta una questione di costi. Il disegno di legge oggi non include – ed escludo che lo farà – queste buste nella definizione di sacchetti, e dunque è difficile che spontaneamente i supermercati scelgano un prodotto che ad oggi costerebbe tre volte tanto quello che usano. E’ ancora troppo presto.
Chiudiamo con uno sguardo al resto del mondo. Le bioplastiche cominciano a toccare anche Paesi emergenti o per ora il mercato resta sostanzialmente europeo e statunitense?
In tutto il mondo si sta pensando a norme per ridurre gli usa e getta, principalmente per una questione di inquinamento ambientale e visivo: pensiamo all’Africa, all’India, alla Cina, ma anche il Messico. Però c’è una strada a mio parere più importante, che sosteniamo come Assobioplastiche e che è il principio guida che sta seguendo l’Europa: collegare la biolpastica alla raccolta differenziata. Fare in modo che i biopolimeri vengano recuperati attraverso il compostaggio. Questo è il vero punto fondamentale, che coniuga l’uso sostenibile delle risorse con la gestione sostenibile dei rifiuti. Altrimenti facciamo solo eco marketing.