L'intervento del presidente dell'Aci Franco Lucchesi
23 April, 2004
L’evoluzione culturale dell’ACI Il tema della Conferenza di quest’anno si inserisce in un percorso di evoluzione culturale che sta interessando un po’ tutti gli Automobile Club in tutto il mondo. Del resto non poteva che essere così, visto il legame che esiste fra una grande organizzazione di cittadini quale è, dovunque, un Automobile Club e la società in cui essa opera e di cui è specchio, se la rappresentanza dei suo aderenti è veramente coerente. Nei paesi ricchi, soprattutto dell’Occidente, si è assistito, negli ultimi venticinque anni, ad un processo critico che ha coinvolto lo stesso modello di sviluppo ed ha cercato di conciliarlo con aspetti prima sottostimati, quali la compatibilità ambientale, la qualità della vita e la salvaguardia dell’uomo nell’ecosistema in cui vive, assurti al rango di valori diffusi e condivisi. Questa evoluzione culturale ha segnato anche la posizione, per così dire, “ideologica” dell’ACI, i cui interessi primari si sono progressivamente spostati dall’auto all’automobilista e, successivamente, dall’automobilista alla persona che si muove, che ha esigenze di mobilità; i “movers”, per usare una terminologia inglese ormai di comune accezione. L’ACI si fa dunque attento ai generali problemi della mobilità – divenuti problemi di una mobilità sostenibile – non tanto – o non solo – nell’interesse dei propri soci automobilisti, ma perché la loro soluzione, in quanto fattore di libertà, di qualità essenziale e di progresso economico, costituisce il necessario retroterra per una associazione che vuole ritrovare l’originario spirito di Club e presidiare con efficacia il mercato dei servizi alla persona che ha esigenze di mobilità. Una proposta associativa fondata su questi presupposti ha bisogno di un contesto a misura di uomo, di ambiti urbani in cui la qualità di vita torni ad essere la bussola delle scelte amministrative, di città in cui sia possibile rileggere e riappropriarsi di quelle cifre culturali che costituiscono il dna di un popolo, su cui anche la storia centenaria dell’automobile e dell’ACI hanno lasciato un’impronta significativa. La congestione, l’inquinamento, lo stress di una mobilità negata od ostacolata, il dramma dell’incidentalità, l’inaccessibilità dei centri storici, sono l’esatto contrario di quel contesto a misura d’uomo. Quel contesto ha bisogno di un grande cambiamento culturale nell’azione dei decisori, in cui l’intelligenza faccia premio sugli egoismi, in cui la visione complessiva dei problemi e degli interessi prevalga sulla miopia di scelte ideologizzate. Non si dà certo prova di visione serena degli interessi di tutta la collettività imbastendo polemiche che mirano a mettere in discussione l’efficacia e l’utilità della patente a punti solo perché questo provvedimento è stato adottato da questo Governo. Il successo sta nelle centinaia di vite salvate che valgono più di qualsiasi polemica strumentale. E se l’ACI, nella sua funzione autonoma di portatore di interessi diffusi in tema di mobilità, ha richiamato tutti a non abbassare la guardia in presenza di un assestamento dei risultati meno positivo, lo ha fatto perché sentendosene padre spirituale per averla chiesta per primo, aveva ed ha interesse a che si creino tutte le condizioni per il suo pieno successo, compresi gli strumenti ed i contenuti della comunicazione. E non certo per sollecitare polemiche di critici prevenuti. Queste posizioni ideologizzate non aiutano la comprensione dei fenomeni né in tema di sicurezza né in termini di mobilità. Ecco perché un contesto di ritrovata vivibilità urbana necessita di grande onestà intellettuale. Crisi di interpretazione dell’evoluzione sociale Il ritorno ad un diverso equilibrio fra i modi di trasporto appare obbiettivo prioritario nella costruzione di quel contesto, visto che tutti i nostri centri urbani sono soffocati da modi di trasporto quasi solo individuali, le cui quantità hanno generato congestione e paralisi, oltre a danni all’ambiente e alla salute. Dobbiamo riconoscere che l’evoluzione economica e sociale delle nostre città, con la sua crescente domanda di mobilità, ha trovato, per lo più, una classe dirigente impreparata e miope. Urbanizzazione selvaggia, terziarizzazione abbandonata a se stessa, infrastrutturazione insufficiente, hanno stravolto le nostre città, generando, poi, risposte più massimaliste che non solutorie. Il Trasporto Pubblico Locale non è sfuggito a questa logica. Lo studio di base di questa nostra sessantesima Conferenza documenta come l’urbanizzazione abbia esteso i “bacini di vita” dei centri urbani di circa 30-40 km di raggio intorno alla città vecchia. Ma quante città hanno preventivamente adeguato infrastrutture ed offerta di trasporto pubblico alle estensioni che venivano autorizzate? La distanza media fra domicilio e luogo di lavoro è cresciuta del 56% in quindici anni. Di quanto è cresciuta l’offerta di mobilità del mezzo pubblico nello stesso periodo? La terziarizzazione ha polverizzato le attività sul territorio. Quante città hanno regolamentato il fenomeno attraverso una oculata gestione dei cambi di destinazione o ricreando centralità urbane polifunzionali? La motorizzazione si è diffusa con tassi da leadership mondiale. Quanti regolamenti urbanistici locali hanno adeguato a questa realtà gli standard indicati come minimi dalla legge nazionale per i posti auto di ogni nuova unità abitativa? La mobilità individuale giornaliera è passata, in vent’anni, da un rapporto del 55 a 45 fra sistematica e non, ad un rapporto di 32 a 68. Quante aziende di pubblico trasporto hanno adeguato la loro offerta a questo dato impressionante e stravolgente rispetto al passato? La risposta spontanea alla politica dei divieti E’ accertata una relazione diretta fra crescita del tasso di sviluppo e crescita del tasso di mobilità. Il Paese è cresciuto al punto da diventare una delle sette potenze economico-industriali del mondo. Questa crescita ha avuto un parallelismo nella crescita della domanda di mobilità. Nelle nostre aree urbane il fenomeno è stato subìto, lasciando al trasporto individuale quasi tutto l’onere di rispondere all’incremento della domanda di mobilità, per di più senza procedere alla realizzazione tempestiva di quegli interventi infrastrutturali che avrebbero almeno permesso di contenere la violenza dell’impatto. Sono nati così quelli che, qualche tempo fa, abbiamo chiamato “i forzati dell’auto”: cittadini costretti all’uso quotidiano dell’auto dalla mancanza di offerte alternative, efficienti, credibili, coerenti con la trasformazione economico-sociale dei modelli di vita urbana. Alla congestione e all’inquinamento che ne sono seguiti si è saputo rispondere solo con divieti – spesso inutili come le targhe alterne o le domeniche a piedi – e limitazioni. Là dove non vi è stato un sufficiente adeguamento dell’offerta di trasporto pubblico, le misure restrittive adottate sono risultate indicative del fallimento di una classe dirigente che, come sorpresa e sopraffatta da una crescita – peraltro annunciata, costante e prolungata nel tempo – della domanda di mobilità risolta spontaneamente, può soltanto intervenire ad arginare un fenomeno che è sfuggito di mano usando la leva dei provvedimenti di emergenza. Con il risultato di trasferire semplicemente su modi diversi – le moto – ma sempre individuali, quote di mobilità, creando altre congestioni ed altri inquinamenti. Questo, appunto, perché nelle società evolute la domanda di mobilità non può essere compressa e l’individuo, costretto a non avere alternative, può solo o cercare in proprio altre soluzioni accettabili o rialzare la soglia dei costi e dei rischi che è disposto a sostenere pur di soddisfare il proprio bisogno. In altre parole, lo spontaneismo della risposta non è spia di un pervicace autolesionistico egoismo dei cittadini propensi alla conflittualità con le loro istituzioni, bensì necessitata soluzione a bisogni reali non altrimenti soddisfatti con quel livello di efficacia che oggi si richiede. La contestualità delle azioni E’ oggi presente un rischio che è necessario denunciare con forza; non per difesa di interessi corporativi – che non esistono – ma per evitare guasti futuri. La politica dei divieti, delle limitazioni, delle città a pagamento, rafforzata da innovazioni tecnologiche che la rendono di ampia diffusione e di sicura efficacia anche in termini di redditività economica, rischia di diventare la sola cultura di governo della mobilità cittadina. In altre parole, si tende a ritenere che il riequilibrio fra i modi di trasporto all’interno delle aree urbane – soprattutto nei centri urbani – si realizzi usando la sola leva della compressione del trasporto individuale attraverso i divieti e non anche la leva dell’adeguamento dell’offerta del trasporto pubblico. Cosa questa scelta comporterà nel medio-lungo periodo, è forse difficile da stabilire. Ma c’è il rischio concreto di uno stravolgimento economico-sociale dei nostri centri storici, svuotati di attività, ghettizzati, al più museificati durante il giorno, ma non più depositari e terreno di coltura delle nuove generazioni e delle tradizioni specifiche dei nostri tanti “campanili”. Senza contare che le scelte indiscriminate di tariffazione dell’accesso a parti significative della città sembrano comportare fenomeni di esclusione sociale nei confronti delle utenze economicamente più deboli. Si cita continuamente l’esperienza di Londra e del suo sindaco Livingstone. Ma non si dice che quella esperienza – peraltro ancora limitata all’area della city finanziaria – è stata caratterizzata, sì, da un generalizzato provvedimento di road pricing – messa a pagamento dell’area interessata – ma è stata contestualmente accompagnata da un massiccio investimento in nuovi mezzi pubblici e da un fortissimo incremento dell’offerta di trasporto pubblico, in orari e frequenze, oltre che in integrazione di sistemi. Tanto che, diversamente da quanto immaginato, il saldo economico dell’operazione si presenta passivo perché le entrate dei ticket d’ingresso non coprono i costi degli investimenti fatti. E lo stesso sindaco, registrando la crisi di alcune attività commerciali interne all’area – soprattutto commercio al minuto e locali di pubblico spettacolo – ritiene opportuno introdurre meccanismi che evitino il trasferimento di queste attività. La contestualità di questi interventi, dunque, è essenziale. Al pari di una visione di insieme dei problemi, essendo pacifico che non tutta la domanda di mobilità potrà, dovunque, trovare risposta nella sola offerta di pubblico trasporto; e sarà necessario avere chiaro fin dall’inizio il quadro delle integrazioni fra i vari modi di trasporto nelle diverse zone delle città e soddisfare le esigenze anche infrastrutturali che essi richiedono. Così come sarà necessario monitorare passo passo i mutamenti dei comportamenti, delle abitudini, dei bisogni, al fine di evitare stravolgimenti dei caratteri distintivi di ogni realtà urbana. L’offerta di pubblico trasporto L’attuale contesto urbano scarica, dunque, sul sistema del trasporto pubblico la grande responsabilità di restituire alle nostre città una vivibilità perduta. E’ bene chiarire, subito, che l’ACI condivide pienamente questa scelta e che alcune criticità evidenziate non sono esplicitate per indebolirla. Anzi! Mirano a contribuire ad una migliore conoscenza dei problemi così che la risposta sia più efficace. In attesa di una liberalizzazione-privatizzazione da tempo programmata, non attuata e rimessa talvolta in parte in discussione, il mercato si presenta con caratteristiche invidiabili da qualsiasi imprenditore: elevatissima domanda e scarsità di offerta. Ma è una domanda estremamente polverizzata, qualitativamente esigente, flessibile e mutevole, più propensa a ragionare in termini di diritti che non di opportunità. Sul terreno della conoscenza di questo mercato e dell’adeguamento dell’offerta rispetto a questa domanda così speciale, le aziende di pubblico trasporto devono ancora fare un importante cammino culturale e funzionale. Ma non possono certamente essere lasciate sole e senza mezzi a rispondere ad un bisogno che non è solo un loro problema, ma che è un problema sociale e collettivo. Non è priva di significato l’evoluzione dell’iniziale atteggiamento liberista – puntualmente documentato dallo studio della Fondazione Caracciolo e della Direzione Studi dell’ACI – scivolato su posizioni che mirano a conciliare esigenze privatistiche di economicità di gestione e di concorrenza, con obbiettivi di salvaguardia dell’ambiente e di riequilibrio modale che non possono che essere preoccupazioni di natura pubblica. Su questo punto l’ACI non può che ribadire la propria contrarietà a soluzioni che tornino a scaricare sui consumatori il costo di inefficienze, sprechi e gestioni deresponsabilizzate. Ma non può che confermare la necessità di individuare strumenti convenzionali – evidentemente di mera gestione – che precisino con chiarezza gli obbiettivi, le funzioni e le responsabilità dei gestori, scelti in competizione fra loro. Essendo evidente che rimane totalmente in capo al potere pubblico il compito di stabilire le linee e gli obiettivi strategici all’interno di un sistema integrato di mobilità, oltre che la definizione e la copertura di quelle finalità sociali che potrebbero risultare penalizzate dal perseguimento di meri risultati di bilancio. La cui valutazione complessiva deve tenere conto di un bilanciamento reale costi- benefici in cui entrino in gioco i molteplici versanti – ambientali, sanitari, culturali – che costituiscono il costo sociale vero della congestione. Una Authority per la gestione della mobilità Se solo una visione d’insieme dei problemi è in grado di cogliere tutte le implicazioni che le scelte in tema di mobilità si portano dietro – riequilibrio modale, valutazione dei costi sociali della congestione, efficacia ed efficienza del trasporto pubblico locale, risorse per gli investimenti, piani di intervento infrastrutturali, adeguamento qualitativo e quantitativo alla domanda, evoluzione socio-economica delle aree urbane, pianificazione territoriale – occorre avere la conoscenza e la governance di tutti gli elementi necessari ad un approccio sistemico. Il dato – di per se incontestato in ambito scientifico e di puro dibattito –trova ostacolo nella frammentazione dei soggetti che hanno il potere di incidere sui singoli elementi in gioco e nella loro riottosità a rinunciare a spazi della loro autonomia in nome di un più ampio e generale interesse. Il fenomeno è tanto più evidente quando lo si misura su una scala metropolitana che, peraltro, è sempre più la sola scala su cui ci si deve confrontare nel tentativo di dare una efficace soluzione al problema mobilità. Ecco perché appare sempre più necessario dare vita ad una Authority che abbia la responsabilità della governance di mobilità e territorio, così da ricondurre a sistema tutti gli interventi necessari ad assicurare un ordinato sviluppo ed una mobilità realmente sostenibile. Un centro di governo autorevole, certamente partecipato, ma titolare di tutti gli strumenti decisionali ed operativi per dare sistematicità e lungimiranza alle scelte. Mo.Ve., l’Osservatorio internazionale voluto dall’ACI, ha posto l’accento su questa necessità di governance e ne ha anche definiti i connotati guida. Uno di questi connotati riguarda la necessità di preventivo coinvolgimento dei cosiddetti “stakeholders”, i portatori di interessi diffusi che vengono via via coinvolti nelle scelte. Confrontarsi con gli stakeholders sulle ipotesi di intervento prima di ogni decisione operativa appare non un metodo, ma parte dello stesso contenuto di una scelta, perché solo se condivisa – o, comunque, preventivamente confrontata – essa risulta efficace. Un connotato troppo spesso ignorato nelle scelte dei nostri decisori in tema di mobilità. Un connotato a cui l’ACI richiama con forza, non senza riproporsi – nei fatti e non in termini di mero principio – quale istituzione rappresentante di stakeholders. E, quindi, interlocutore legittimato e credibile su ogni tematica o decisione di mobilità.