Food for Good: le designer del cibo salvato
Antonio Castagna ha incontrato Anna Cennamo e Martina Giulianelli, due italiane che a Londra hanno creato Food for Good, un’impresa sociale che recupera cibo altrimenti destinato alla discarica
26 March, 2015
di Antonio Castagna
Domenica
1 marzo ho conosciuto Anna Cennamo, ragazza napoletana che ha
studiato design al London College of Communication. Anna era tra gli
ospiti di Refood, cibo in ricreazione, evento creato
dall’Associazione Qubì in collaborazione con il movimento Food
sharing Torino. Anna ha raccontato come, insieme a Martina
Giulianelli, un’altra italiana di Londra, ha strutturato Food for
Good, un’impresa sociale che si dedica al recupero di cibo che
altrimenti sarebbe destinato alla discarica.
L’idea
di applicare le conoscenze di designer al cibo è nata all’Università
nel 2011. Martina in quel periodo lavorava in una panetteria che la
sera buttava tutto quanto era rimasto invenduto, e questo la faceva
arrabbiare. Da questo sentimento è nata la prima idea, prendere cibo
già processato, come panini, tramezzini, tranci di pizza, pezzi di
rosticceria, da negozi e supermercati e donarlo ad associazioni
caritatevoli affinché lo distribuissero ai bisognosi. Un’idea a
cui molti di noi hanno pensato immaginando che fosse semplice, dato
che basta connettere un’offerta che nessuno vuole più e una
domanda che non può esprimersi per mancanza di denaro. In
questa prima fase l’Università ha messo a disposizione un premio
di 2000 sterline per cominciare il test, ha facilitato i contatti con
le charities, messo a disposizione un furgone, le attrezzature per
stampare il materiale promozionale, ecc. Anna
e Martina si sono rese subito conto che l’idea era troppo semplice.
Infatti le associazioni benefiche preferiscono cucinare il cibo e
distribuirlo caldo quando e dove serve, mentre il cibo già
processato deve essere smerciato in fretta altrimenti degrada. Uno
smacco, ma non si perdono d’animo.
Ricominciano
a pensare a dove trovare il cibo fresco e decidono di provare con i
mercati rionali. Anche questa sembra un’idea semplice, ma presto si
accorgono che è faticoso: il cibo recuperato non è abbastanza,
devono negoziare con ogni singolo venditore, spesso di origine
asiatica che non comprende perché queste due ragazze cerchino
proprio i prodotti più brutti e invendibili. Le conversazioni con i
venditori prendevano pieghe del tipo: “prendi questo bello. Tu
compra. Questo brutto, non compra”. Altro
smacco, ma sono tenaci e continuano a non perdersi d’animo. Così
decidono di andare alla fonte: i grossisti che distribuiscono cibo
fresco in tutta Londra. Due in particolare, mettono a disposizione i
loro magazzini, dove Anna e Martina trovano cibo fresco ancora in
buono stato ma non così bello da poter essere esposto, perché
ammaccato, o di forma irregolare, oppure perché rimasto invenduto
dal giorno prima. E qui capiscono con immediata evidenza che il cibo
che viene buttato non è cibo da buttare, ma cibo che dopo aver fatto
il giro del mondo, finisce in un magazzino senza sapere più dove
andare. Ed ecco spiegato perché il 40% del cibo commercializzato in
occidente viene sprecato. Cosa
farne di quel ben di dio abbandonato? Inizialmente lo mettono
sottovuoto e provano a distribuirlo in piccole botteghe di quartiere,
ma la cosa non ha troppo successo e il sottovuoto non comunica bene
il concetto di sostenibilità, altro scacco. Allora cambiano di nuovo
strategia e cominciano a proporsi come catering sostenibile, e
stavolta, siamo già nel 2013, funziona. I loro clienti sono
soprattutto imprese sociali, oppure aziende che vogliono comunicare
attenzione all’ambiente e all’imprenditoria femminile,
l’Università stessa quando organizza eventi e convegni.
Anna e Martina dedicano molta attenzione alla comunicazione. Hanno capito che se recuperi cibo che rischiava di andare a male, devi fare lo sforzo di comunicare bellezza e coerenza insime all’idea di sostenibilità. Anna mi racconta come questo sia spesso un problema per chi lavora in questo campo: “spesso pensano che basti fare bene una cosa, ma se questa cosa ha a che fare con il waste, devi fare in modo da evocare concetti che siano molto lontani dalla discarica”. Per questo hanno recuperato l’idea del sottovuoto per conservare quanto raccolgono di giorno in giorno in modo che resti anche bello da vedersi (“Less waste more taste” è uno degli slogan che hanno inventato); poi hanno creato una linea di prodotti: tovaglie, poster, tovaglioli, ottenuti da stoffe recuperate o da carta riciclata. I poster per esempio li fanno loro, utilizzando vecchi poster e fibre vegetali, tipo i gusci delle mandorle, in modo che sia evidente il loro messaggio. Inoltre parlano sempre con le persone presenti a un loro catering, presentano i loro prodotti, gli chef che hanno cucinato, vendono le loro marmellate, in modo che i presenti possano esprimere le loro domande. Inoltre i clienti intervistati durante i catering diventano testimonial nei video che si trovano sul loro sito http://www.foodforgood.me/ .
Attualmente Food for Good fa parte di un network http://feedbackglobal.org nato intorno a Tristam Stuart, autore di “Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare”, edito da Bruno Mondadori. La fama raggiunta da Stuart consente di negoziare finanziamenti, di realizzare progetti, finalizzati alla riduzione degli sprechi, che sono veramente tanti, in tutte le fasi: produzione, stoccaggio, distribuzione e vendita. Se consideriamo che a perdersi non è solamente il cibo, ma il lavoro che ha richiesto, l’acqua e i fertilizzanti usati per produrlo, il packaging, i trasporti e quant’altro, allora ci facciamo un’idea dell’ampiezza del problema.
Per dirla in maniera semplice, Anna e Martina, sono partite da un problema, lo spreco di cibo, hanno individuato delle connessioni mancanti: la prima, quella tra i distributori e quella parte di popolazione che per mancanza di risorse non riesce ad accedere al mercato; una seconda, quella tra il tema dello spreco e la bellezza, del cibo, delle relazioni, delle occasioni di convivialità. Per questo motivo i loro catering sono così curati e prodotti da cuochi di così alto livello che l’ultima cosa a cui viene da pensare è una discarica. Hanno pensato da designer e hanno disegnato un processo complesso, dove azione e comunicazione si rinforzano reciprocamente. Unica differenza con il design tradizionale di tipo industriale è che loro pensano a partire dai limiti: “abbiamo solo carciofi? – mi dice Anna - vuol dire che dovremo trovare almeno 4 diversi modi di prepararli. Abbiamo vecchie locandine già stampate? Vuol dire che i nuovi poster dovremo sovrastamparli per evitare di sprecarle. Noi siamo finding solutions”. Realizzare oggetti e portate a partire dai limiti, ecco il loro mestiere.
Un
cruccio che hanno al momento è la plastica che usano per il
sottovuoto. Hanno cercato aziende che utilizzassero almeno plastica
riciclabile, ma al momento non hanno ancora trovato niente. In
compenso il prossimo 16 marzo presenteranno la loro linea di tovaglie
e tovaglioli colorate con tinte estratte dai resti della frutta e
della verdura. Non
vivono ancora di questo lavoro, arrotondano con altri lavori. Martina
in particolare lavora in un bar per cui prepara le zuppe utilizzando
le verdure recuperate. Nel 2014 hanno recuperato circa 4 tonnellate,
non male per un’impresa che ha appena trovato la giusta strada.