Referendum, storia drammatica delle piattaforme gemelle “ADA” (non più in uso)
Usate per trent’anni, due delle tre piattaforme stanno ora sprofondando. Tuttavia sono considerate sulla carta “potenzialmente produttive” ma in realtà sono dismesse. Il referendum del 17 aprile (votando SI) può salvare le piattaforme dall'abbandono in mare e costringere le società allo smaltimento
08 April, 2016
In mare, all’altezza del Delta del Po (Chioggia, Ravenna) ci sono tre piattaforme sorelle nominate ADA2, ADA3, ADA4, non sono più in funzione e la loro storia si intreccia con il referendum del 17 aprile 2016. Queste piattaforme sono gemelle (classe 1982) e hanno estratto gas nel corso della loro vita utile. La loro struttura è di tipo “monotubolare”, dall’aspetto molto esile e contenuto (solo 8x8 metri). Non sono affatto elefantiache e mastodontiche come le “reticolari a 4 gambe”.
Esse rientrano, come le altre 92, nell’elenco delle “Piattaforme
marine e strutture assimilabili”, stilato e aggiornato dal Ministero dello
Sviluppo Economico. Le tre piattaforme si trovano entro il limite delle 12 miglia
dalla costa e dalle aree protette (a circa 20 km dalla costa). Da un punto di
vista amministrativo, sono sempre state sotto la competenza dell’ufficio territoriale ministeriale di Bologna e sotto la supervisione della Capitaneria
di porto di Ravenna. Di loro si è sempre occupata la loro società "madre", l’ENI, per
concessione dello Stato pari a trenta anni (Concessione di coltivazione A.C 9.AG).
La concessione è stata poi prorogata nuovamente dallo Stato (presentata, in
data 16 ottobre 2008, istanza di proroga pubblicata sul BUIG Anno LII - N. 11) ma
sono comunque tutt’ora in fase non produttiva perché hanno un problema: stanno
sprofondando ( vedi subsidenza).
Il pozzo ADA 003 è stato chiuso minerariamente qualche anno fa ed è in attesa di smantellamento (decommisioning). Gli altri due ADA 002 e ADA004 sono considerati pozzi "potenzialmente produttivi" ma "non eroganti" in quanto ricadenti in un area soggetta ad rischio e occorre fare degli accertamenti (non sussistenza di rischi apprezzabili di subsidenza sulle coste, articolo 8 comma 1 della Legge 6 agosto 2008, n. 133).
Si sta verificando un lento e progressivo sprofondamento del fondo marino indotto dall’estrazione del gas. Il fenomeno è ovviamente fisico: diminuendo la pressione dei fluidi interstiziali residui, si ha quindi un assestamento del terreno. E’ vero che ad ogni metro cubo di gas estratto, l’ENI avrebbe dovuto iniettare un metro cubo di acqua marina, ma qualcosa non ha funzionato. E comunque il fenomeno della subsidenza nel Delta del Po si conosce già dagli anni 60, tanto che ne aveva trattato in una relazione il Consorzio di Bonifica Delta Po Adige: dall'inizio degli anni '50 a metà degli anni '70 il territorio si è abbassato mediamente di oltre 2 metri, con punte di 3,5 metri. L’effetto sulle coste fu devastante in quegli anni. Lo Stato dovette ricostruire gli argini dei fiumi (480 km) e gli argini a mare (80 km), per evitare infiltrazioni e alluvioni. Ci furono morti e centinaia di migliaia di sfollati (Polesine). Il Delta e gli altri territori del comprensorio del Consorzio di Bonifica Delta Po Adige ancora oggi vengono mantenuti asciutti da 38 idrovore e 117 pompe, con una capacità di sollevamento di 200mila litri al secondo ( spesa di 1 milione e 600 mila euro l’anno di energia elettrica). Ma questa è un’altra storia.
Oggi il destino della piattaforme ADA è legato al referendum del 17 aprile 2016. Rimanere per sempre in mare oppure rientrare sulla terraferma grazie ad una opera di dismissione da parte di ENI. La concessione delle piattaforme ADA era nuovamente in scadenza ma il loro destino è cambiato grazie ad una legge del Governo (dicembre 2015): le piattaforme non sono più soggette al rinnovo della concessione da parte dello Stato, la concessione è concessa a vita, per esattezza fino alla vita utile del giacimento.
Le piattaforme ADA, come le 46 AMELIA (e altre ancora) non essendo più convenienti da un punto di vista estrattivo, rischiano di rimanere a vita in mare in quanto saranno sempre dichiarate sulla carta potenzialmente produttive, ma nella realtà rischiano di essere abbandonate dalle loro società “madri”, perché considerate non più convenienti per fattori come quello della sudsidenza.
In foto: tre piattaforme tubolari in disuso (Benedetta1, Giulia1 e Ombrina mare 2, rispettivamente al largo delle coste delle Emilia, Marche e Abruzzo)