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I recenti disastri climatici sono il conto da pagare per l'aumento delle emissioni di CO2 nell'atmosfera? - da Famiglia Cristiana del 04.10.2005
10 October, 2005
<b>Barbara Carazzolo
«L’età della pietra non è finita per mancanza di pietre. Cosa aspettiamo a ridurre le emissioni di anidride carbonica e a fermare il surriscaldamento del pianeta: che finisca il petrolio? O che finisca il pianeta?»</B>
La battuta è di Beppe Grillo, ma la realtà sulla quale ironizza si basa su dati scientifici seri: la concentrazione atmosferica di anidride carbonica (CO2) è aumentata del 34 per cento dal 1750, raggiungendo i valori più alti degli ultimi 500 mila anni e crescendo sempre di più negli ultimi decenni. La temperatura del pianeta è aumentata di 0,7 gradi e sembra destinata a crescere ancora. Con quali conseguenze? Nessuno lo sa con certezza, ma già si assiste a fenomeni che la maggioranza degli scienziati considera molto probabilmente legati ai cambiamenti climatici in atto: dallo scioglimento dei ghiacciai all’innalzamento della temperatura degli oceani, dalla desertificazione di ampie zone del pianeta all’aumento dei fenomeni estremi e della loro intensità. Proprio recentemente uno studio del Massachusetts Institute of Technology di Boston ha concluso che la forza distruttiva delle tempeste tropicali tipo Katrina è aumentata del 50 per cento nell’ultimo mezzo secolo e che la crescita della temperatura è almeno in parte responsabile di questa tendenza.
Ma c’è una connessione diretta tra le emissioni di CO2 da parte dell’uomo e i cambiamenti climatici? Ed è proprio assolutamente necessario ridurre del 7 per cento entro il 2012 le emissioni di anidride carbonica cambiando i modelli energetici e produttivi, come vuole il Protocollo di Kyoto? L’accordo internazionale ratificato da 141 nazioni, fortemente voluto dall’Unione europea, ha molti nemici. Il più agguerrito di tutti è l’America di George Bush, responsabile di un quarto delle emissioni di gas serra del pianeta. Solo durante il recente vertice dei G8 a Gleneagles, e grazie alla pressione di Tony Blair, Bush ha ammesso per la prima volta la gravità della situazione e la necessità di intervenire. Ma pochi mesi prima l’associazione ambientalista Greenpeace aveva reso pubblico come il capo di gabinetto del Consiglio per la qualità dell’ambiente della Casa Bianca, Philip Cooney, un ex lobbista per conto delle compagnie petrolifere, avesse sistematicamente manomesso e censurato i rapporti scientifici sul cambiamento climatico globale.
«Eppure anche negli Stati Uniti qualcosa si muove», dice il professor Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, ex ricercatore nel settore della politica energetica al Cnr ed ex direttore generale al ministero dell’Ambiente. «Un numero crescente di Stati, dal Maine al Massachusetts, da New York al New Jersey, alla California, ha raggiunto un’intesa preliminare per stabilizzare le loro emissioni di CO2 e poi ridurle entro il 2020. A giugno, poi, l’assemblea dei sindaci delle città americane ha approvato un documento con cui sollecita il Governo ad adeguarsi ai vincoli di Kyoto. Anche nel mondo scientifico Usa l’amarezza è forte: centri di ricerca, università e la stessa Accademia nazionale delle scienze continuano a produrre documenti e studi che confermano la gravità della situazione e invitano il Governo a prendere provvedimenti». Ma perché tanta resistenza? «Perché la scienza non ha ancora dimostrato al cento per cento una connessione tra l’aumento dell’anidride carbonica e i cambiamenti climatici», dice il professor Antonio Navarra, dirigente di ricerca all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e docente di scienze ambientali all’Università di Ravenna. «Anche se tutto un sistema di prove indiziarie punta in quella direzione, mentre le spiegazioni alternative che possono giustificare l’aumento della temperatura non spiegano tutto e sono poco convincenti dal punto di vista scientifico. E quindi il problema è politico ed economico. Cambiare stile di produzione, abbandonare progressivamente il petrolio e il carbone ha un costo. C’è una storiella che spiega la situazione: un gruppo di turisti, tra cui alcuni scienziati, percorre un fiume in canoa. Gli scienziati si accorgono che c’è una cascata più avanti e tutti si preoccupano. Bisognerebbe abbandonare il fiume, ma sulle rive ci sono i cannibali. Che fare? Dire se la cascata c’è o non c’è è una questione scientifica. Decidere come e quando abbandonare il fiume è una questione politica». Con un forte impatto economico.
Dice Emma Marcegaglia, vicepresidente di Confindustria: «Il Protocollo di Kyoto si ispira a buoni princìpi, ma ha dei grossi punti critici. Intanto non prevede la partecipazione di Paesi come Cina, India e Brasile, che sono in una fase di grande sviluppo e producono forti quantitativi di anidride carbonica, ma poco si occupano di problematiche di ordine ambientale. Anche altri Paesi industrializzati, come gli Usa, non l’hanno ratificato. In questo contesto l’Europa ha scelto di confermare tutti gli impegni, con il rischio di ritrovarsi in una situazione unilaterale. L’impatto per le imprese italiane è ancora più critico perché all’Italia è stato chiesto di profondere uno sforzo maggiore in termini di riduzione delle emissioni rispetto agli altri Paesi: sia perché non abbiamo energia nucleare e sia perché da noi l’energia costa un 30 per cento in più. Bene sarebbe che l’Europa desse il suo contributo alla lotta ai cambiamenti climatici puntando, per esempio, sull’esportazione di tecnologie e sui progetti di cooperazione e di innovazione». Obietta Gianni Silvestrini: «L’introduzione di tecnologie più efficienti e di energie rinnovabili consente di ridurre i consumi e quindi i costi energetici e di essere meno dipendenti dalle fonti fossili. Senza contare che si aprono settori produttivi vincenti, dall’illuminazione agli elettrodomestici. Kyoto può diventare un’occasione di sviluppo».