L'Alveare che dice sì, il primo di Milano è nato in via Paolo Sarpi
Giovani e QuartieriRicicloni. Stefania Marucci racconta come il primo "Alveare che dice sì" di Milano sia nato in piena Chinatown, presso lo spazio coworking Impact Hub, in via Paolo Sarpi 8
10 October, 2016
“L'Alveare che dice sì” e il suo slogan “Non mangiare con gli occhi chiusi” sono un'idea nata in Francia nel 2012 - "La Ruche que dit Oui" - e arrivata in Italia, la prima volta, a Torino, presso il Bar Città di Piazza Riccardo Cattaneo 16. Il racconto è di Stefania Marucci, gestrice dell'Alveare di via Paolo Sarpi 8, presso Impact Hub, spazio di coworking e incubatore di startup innovative, di cui lei è Community Manager. Se via Paolo Sarpi 8 è l'indirizzo del primo Alveare di Milano, oggi in città se ne possono contare quasi una decina, compresi quelli “in via di apertura”.
Non ci vuole un grande spazio per fare
un Alveare, la base può essere un locale pubblico, come un
bar o un negozio, oppure uno spazio in un condominio . “Prima abbiamo costruito la community dei consumatori – ci racconta Stefania - poi cercato i produttori lombardi locali”. L'obbiettivo degli Alveari è
infatti quello di far conoscere ai cittadini i
produttori alimentari vicini, scoprendo "come mangiare meglio, sostenendo l'agricoltura locale". Si può
dire che sia un GAS - Gruppo di Acquisto Solidale - ma è meglio dire
GAS 2.0. L'Alveare infatti si basa su internet e i social network,
perchè i prodotti si vedono, ordinano e comprano online, con carta di credito. Naturalmente c'è
bisogno di un ordine minimo, se no il produttore locale
non si imbarca nel trasporto, visto anche il traffico di città come Milano. E naturalmente il produttore porta solo i prodotti alimentari
che gli sono stati ordinati; "non facciamo un mercatino", precisa Stefania.
“Certo, si dice KM0, ma ad essere
precisi qui in Paolo Sarpi 8 la media distanza dei produttori è di poche decine di km, ma dev'esserci sempre la convenienza e sostenibilità del viaggio". Qui il mercoledì pomeriggio non arrivano solo
formaggi - come quelli di capra dell'Allevamento e caseificio della Gabbana, a Cassano d'Adda - pomodori e insalate, mele o pere, ma anche prodotti più
particolari – basta farsi un giro sul sito web – come funghi,
conserve, peperoni secchi e addirittura lo zafferano della Brianza,
dei Mastri Speziali, direttamente dal produttore al consumatore.
Gli iscritti alla community di Paolo Sarpi sono attualmente 540,
gli ordini vengono fatti fino al giorno prima, qui la media è di una 20ina di ordini alla settimana. Ci si
ritrova tutti poi il giorno della consegna, di solito nel tardo
pomeriggio, quando arrivano i prodotti e i milanesi hanno così la possibilità di conoscere di persona gli agricoltori/allevatori
locali.
Perché gli Alveari sono importanti anche dal punto di vista ambientale? “E' un sistema di spesa che non prevede imballaggi – spiega Stefania - fa comprare solo quello di cui abbiamo davvero bisogno, “non ad occhi chiusi”, limitando così gli sprechi. Ci fa comprare il necessario, se avanzano delle cose il mercoledì ce le cuciniamo qui, nella cucina condivisa di Impact Hub". E non va dimenticato che anche Impact Hub, spazio co-working e incubatore di start-up, è un progetto sostenibile, da un punto di vista ambientale. "Il riciclo e la corretta raccolta differenziata sono anche la nostra filosofia. Impact Hub è uno spazio costruito con arredamenti e installazioni di design realizzate con materiale di riciclo, come la nostra libreria".
Tra poco però l'Impact Hub di Paolo Sarpi si
trasferirà in via Aosta 4 (Mac Mahon), sempre Zona 8, la stessa di
via Paolo Sarpi, e anche l'Alveare passerà la
mano a quello già attivo in zona piazza Diocleziano, via Losanna 46, presso il
locale Off Side, gestito da Ileana Iaccarino. Un Alveare
che ha scelto di seguire una filosofia ancor più speciale nella
scelta dei fornitori: alcuni di quelli selezionati, infatti, sono
aziende agricole ad impatto sociale, che impiegano i guadagni
reinvestendo in attività di recupero per persone con disturbi
mentali, problemi fisici, di alcolismo o di tossicodipendenza.
di Stefano D'Adda
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