'Riso Bio, un'altra agricoltura è possibile'
Intervista al Consigliere regionale Gianpaolo Andrissi sul documentario “Riso Bio, un'altra agricoltura è possibile”, un lavoro che insieme ai coltivatori fa emergere come le colture biologiche sono sostenibili sia dal punto di vista ambientale che economico.
31 March, 2017
Presentato nella giornata di ieri (venerdì 31 marzo) nella sala del Consiglio comunale di Vercelli in piazza Alciati il documentario “Riso Bio, un'altra agricoltura è possibile”. Un video documentario che nella sua realizzazione ha seguito tutte le fasi della coltivazione del riso biologico, così da mostrare che coltivare riso biologico è sostenibile sia dal punto di vista ambientale che economico. Abbiamo raggiunto il Consigliere regionale Gianpaolo Andrissi, nonché componente della Commissione 'Tutela dell’ambiente e impatto ambientale' del Piemonte e autore del documentario, per capire quali sono le motivazioni che lo hanno spinto a produrre questo documento e quali sono le prospettive per un settore dalle enormi potenzialità economiche e sostenibile, ma preda delle frodi e agromafie come dimostrano le numerose inchieste e sequestri, non solo nel vercellese.
Cosa l'ha portata a realizzare questo video documentario?
Sono stato contattato direttamente dagli agricoltori del vercellese che vivono una situazione particolare, quella del falso riso biologico, una frode alimentare che emerge subito guardando solo le produzione per ettaro, in quanto una produzione bio produce in media 40/50 quintali di riso mentre una produzione convenzionale si attesta sugli 80/90 quintali per ettaro.
Da questa situazione siamo partiti facendo pressione sull'assessorato e in regione, ricordando però che la regione Piemonte può solo controllare i certificatori, una situazione è paradossale.
Allora ci siamo messi a disposizione degli agricoltori, con incontri pubblici per favorire il dialogo e lo scambio delle buone pratiche agricole con chi già coltivava il riso senza l'utilizzo di sostanze chimiche. Seguendo la stagione di questi agricoltori, per poi dimostrare che si può fare, che la produzione è sostenibile dal punto di vista economico e ambientale e con vantaggi a tutta la collettività. Considerando anche la situazione pessima delle falde freatiche superficiali dell'area evidenziati anche dall'Arpa.
Ma ci vorrebbe molto di più. Il prossimo passo è la creazione di un distretto per la produzione del riso biologico a nord della Baraggia e un consorzio misto pubblico privato così da evitare che sia sempre il solito certificatore a certificare l'azienda che paga il certificatore, così da rompere questo circolo vizioso. Inoltre abbiamo proposto la creazione di una etichetta trasparente, dove venga riportata la tecnica agronomica, la produzione di CO2, le sementi utilizzate e tutte le altre caratteristiche per dare la possibilità al consumatore di capire che dietro quel prodotto è stato fatto un lavoro importante per limitare l'impatto sull'ambiente.
Cosa l'ha colpita di più in questo lavoro di documentazione?
Abbiamo conosciuto molte realtà, due di quelle che abbiamo seguito hanno fatto la scelta di non usare nessuna sostanza chimica per la coltivazione, un produttore ha voluto fare una sua sperimentazione del biologico su 4 ettari e un altro ha sperimentato una particolare tecnica conservativa. È stato bello vedere il sovescio che cresce (per sovescio si intende l'interramento di piante o di parti di piante allo stato fresco, praticato allo scopo di arricchire il terreno delle sostanze concimanti in esse contenute, nda), il suo abbattimento, la crescita dei chicchi di riso e il controllo delle infestanti senza l'utilizzo di sostanze chimiche ma solo con buone pratiche agricole come il per esempio il cover crop (coltura di copertura, nda), una tecnica che non solo evita la crescita delle infestanti ma allo stesso tempo cede sostanze nutrienti nel terreno.
Tra gli agricoltori che ha incontrato, qualcuno utilizza teli in materiali bio compostabili per la pacciamatura così da limitare anche la crescita delle piante infestanti e evitare l'uso di diserbanti?
Tra gli agricoltori se ne parla ma, secondo loro, ha un costo eccessivo rispetto alle pratiche agricole che vogliono sperimentare. Infatti la loro attenzione si sta spostando verso le associazioni vegetali e alla banca dei semi, andando a capire quali di queste migliorano la produzione e limitano nel terreno la nascita di infestanti.
In pratica vogliono rispolverare le antiche tecniche di coltivazione o comunque quelle precedenti all'intrusione massiccia della chimica per contrastare parassiti e infestanti?
Per certi versi sì. Utilizzano anche “antiche” varietà di sementi o sementi più originarie come ad esempio la Rosa Marchetti e il Chinese, specie più robuste con piante che arrivano fino agli 80cm e un apparato radicale più forte rispetto a quelle moderne che normalmente sono piante basse che non superano i 30 cm. È chiaro quindi che la pianta di riso che viene coltivata oggi ha più possibilità di risentire della crescita di infestanti ma una pianta nata da sementi più originarie ha una capacità di prendere spazio nel terreno.
A conti fatti quindi coltivare biologico è sostenibile ed economicamente vantaggioso?
Sì, perché mediamente una azienda agricola risparmia circa 130mila euro dal non acquisto di fertilizzanti, erbicidi, fungicida e altre sostanze. Altri risparmi derivano dal fatto che con fertilizzanti chimici la pianta cresce più debole allora è più soggetta ad attacchi fungini e così via, entrando in un circolo vizioso che ti costringe a fare dai sette agli otto trattamenti all'anno.
Nonostante i vantaggi ambientali ed economici perché secondo lei il settore non investe nel biologico?
La difficoltà maggiore è che l'agricoltore viene lasciato solo ad affrontare la conversione al biologico, in secondo luogo nel periodo di conversione non può vendere il riso come biologico e quindi si trova in un momento di grossa difficoltà economica. In pratica non esiste un vero sostegno per la riconversione delle colture. Ci vorrebbe un appoggio concreto e tecnico. Le multinazionali mandano in giro i loro tecnici che ti dicono: “Guarda hai questo problema e te lo risolvo in questo modo con questo prodotto”. Mentre non c'è nessun tecnico che dice all'agricoltore che coltiva biologico devi far così, stai attento a questa tecnica. L'agricoltore biologico è una persone con una certa sensibilità, magari si è ammalato, perché lo che in Italia quasi non si parla delle malattie professionali degli agricoltori mentre qui vicino, in Francia, il Parkinson è stata riconosciuta come malattia professionale legata all'uso dei pesticidi in agricoltura, ma questo è un tabù di cui non si può parlare.
Allora alcuni agricoltori si son stufati e han detto: “Faccio questo salto nel buio”. Un passaggio al biologico frutto di un travaglio professionale e personale approfondito, e quindi oggi sono pochi e vivono sulla loro pelle le tutte difficoltà. Perché un conto è dirle ma poi farle… prendiamo per esempio il cover crop, è una tecnica che bisogna saper gestire perché quando si abbatte questo enorme quantitativo di biomassa con l'acqua, questa va in putrefazione con la conseguente produzione di biogas e cattivi odori, e poi bisogna sempre star attenti ai livelli dell'acqua ecc. In tutte queste fasi l'agricoltore è solo.
Quindi in questa fase il confronto e lo scambio di buone pratiche tra gli agricoltori è fondamentale?
Decisamente, ecco perché spingiamo anche nella direzione della creazione di un distretto. Nella zona di Rovasenda e Buronzo ci sono delle aziende che hanno riconvertito le colture, ma sono gli stessi imprenditori agricoli che dicono “Sto facendo degli errori, li pago in prima persona ed è un grande sacrificio”. In quella zona ci sono 6 o 7 agricoltori che potrebbero già adesso creare un distretto produttivo.
E
in tutto questo quale ruolo ha il consumatore?
Il problema è che il consumatore si ritrova sui banchi dei negozi o della grande distribuzione un prodotto poco trasparente. Che io sappia c'è stata una sola azienda, che commercializza prodotti biologici, che ha inviato i suoi agronomi esperti di biologico a far le verifiche nei luoghi di produzione per selezionare e poi vendere i prodotti migliori e veramente bio. Io per esempio compro direttamente negli spacci delle aziende. Ovviamente non posso pensare che il consumatore di Torino possa andare una volta al mese a Rovasenda, Buronzo o Villarboit a comprare il riso, ecco perché c'è bisogno della creazione di un distretto così da promuovere nel mercato il prodotto e permettere al consumatore di identificarlo, senza il rischio di truffe e frodi alimentari.
Un altro esempio che stiamo cercando di contrastare è quello che accade nelle borse del riso di Novara e Vercelli, per esempio alla borsa del riso di Vercelli si vende riso biologico ma non si sanno i quantitativi e la provenienza di questo riso. Quindi non sapendo l'azienda da cui viene questo riso e i quantitativi che produce non è possibile fare il calcolo della produzione per ettaro per scoprire potenziali truffe e tutelare il consumatore.