Slow Food lancia Menu for Change la prima campagna internazionale sul rapporto tra cambiamento climatico e cibo
Petrini: "A chi si domanda perché posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro"
18 September, 2017
La domenica di
Cheese fa da cornice al lancio della campagna Menu
for Change di Slow Food. È la prima volta che una campagna
di comunicazione e raccolta fondi internazionale evidenzia la
relazione tra produzione alimentare e clima che cambia, annuncia
il fondatore di Slow Food Carlo Petrini: «A chi si domanda
perché un’associazione che si occupa di cultura alimentare
dovrebbe promuovere una campagna sulle questioni del cambiamento
climatico, posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della
qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è
distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro».
Tutti noi, continua
Petrini, siamo responsabili di quello che mangiamo e anche di quello
che coltiviamo: «Il più grande terreno da coltivare è la lotta
allo spreco. Tutte le istituzioni internazionali ripetono che siccome
nel 2050 saremo 9 miliardi e mezzo “bisogna produrre più cibo”,
ma già oggi abbiamo cibo per 12 miliardi di viventi. Significa che
un’ampia parte di quello che viene raccolto, trasformato e venduto
finisce nella pattumiera».
C’è un intero
paradigma agricolo e agroalimentare da cambiare, mentre la produzione
va concentrandosi nelle mani di pochi. Un esempio drammatico viene
dalla filiera del pomodoro: «Tonnellate di pomodori arrivano in
Italia dalla Cina, vengono lavorati e colonizzano i Paesi africani,
invasi da scatole di concentrato prodotto da aziende con nomi come
Gino e la bandiera tricolore sul barattolo. Questi marchi
simil-italiani stanno distruggendo le produzioni agricole africane
perché hanno prezzi perfino più bassi delle loro. Il risultato è
che i giovani abbandonano la terra e vanno a lavorare come schiavi
nei campi del Sud Italia. Siamo tutti chiamati in causa, le piccole
azioni moltiplicate per milioni di persone possono cambiare il
mondo».
A questi paradossi
del mercato si aggiunge l’impatto devastante del cambiamento
climatico. A Cheese lo raccontano le testimonianze dirette dei più
colpiti, gli agricoltori e allevatori del Sud del mondo. Tumal
Orto Galibe, pastore del nord del Kenya, racconta che negli ultimi
quindici anni «perfino l’aspettativa di vita si è ridotta. Nelle
comunità dei pastori abbiamo visto un aumento delle patologie. Ed è
sempre più difficile adattarsi a un clima che cambia nell’arco di
mesi mentre prima cambiava nei decenni: nell’aprile di quest’anno,
in una sola notte di piogge improvvise e torrenziali ho perso più di
230 capi di bestiame».
Un produttore di
formaggi della delegazione cubana interviene per spiegare che l’isola
ha già ceduto terreno al mare ed è stata battuta di recente da
cinque diversi uragani, la cui potenza è correlata alla crescente
temperatura delle acque. L’uragano Irma possedeva una potenza pari
a 7mila miliardi di watt (circa 2 volte le bombe usate durante la
guerra mondiale) e ha lasciato il 40% della popolazione priva di
elettricità, danneggiando la parte più turistica del Paese.
Non si tratta certo
di impressioni individuali, perché ad avallarle ci sono i dati
scientifici: «Siamo in chiusura della seconda estate più calda e
della quarta più secca dal 1753, in Italia e in buona parte
dell’Europa mediterranea» ricorda il climatologo Luca
Mercalli.
Dopo il record del
2003, tutte le estati sono state più calde della media. Con
conseguenze che l’agricoltura e l’alimentazione pagano fino in
fondo: «Un recente studio francese ha esaminato gli effetti del
cambiamento climatico sulle razze animali e i formaggi. Anche in alta
montagna l’aumento delle temperature sta cambiando il modo di
condurre gli alpeggi e i malgari sono costretti a tornare in pianura
anche con un mese di anticipo. Siccità e parassiti arrivano dove
finora non si erano mai visti».
Finora questi
sconvolgimenti hanno avuto un impatto disomogeneo: alcune aree
dell’emisfero nord ne hanno addirittura beneficiato. Ma non per
molto ancora, affermano i ricercatori della Società
Meteorologica Italiana Guglielmo Ricciardi e Alessandra Buffa: «Dal
2030 la riduzione dei raccolti vedrà un aumento esponenziale dei
danni rispetto ai benefici».
Il settore agricolo è tra i più
impattanti in termini di gas serra: con il 21% di emissioni è
secondo solo alle attività legate all’energia (37%). La
fermentazione enterica degli allevamenti industriali copre il 70% di
questo dato.
«Non ci dobbiamo
però concentrare solo sulla valutazione delle attività principali,
– avvertono i meteorologi – ma valutare le attività di
preproduzione (mangimi e concimi) e di postproduzione (trasporto,
stoccaggio, packaging). Le emissioni di CO2, poi, non sono l’unico
parametro da considerare: vanno tenuti in conto anche il contesto
geografico di produzione, la qualità dei suoli e il loro livello di
tossicità e l’uso in quanto risorsa scarsa, l’utilizzo di acqua
e di biosfera (water footprint e ecological footprint)».
Sebbene anche la Fao
sottolinei la necessità di andare verso un’indagine
multiprospettica, che tenga conto degli influssi del cambiamento
climatico su sicurezza alimentare, nutrizione e perdita di
biodiversità, siamo ancora lontani dall’avere una visione
complessiva della filiera.
Così come troppo poco sappiamo del
funzionamento globale degli oceani, conferma il biologo marino
Silvio Greco: «Mentre in terra il cambiamento climatico offre
diversi segnali, nelle acque questo non avviene. Sappiamo per certo
solo che l’oceano fa qualcosa di straordinario: ci dà il 50% del
nostro respiro, immagazzinando CO2. Eppure noi lo stiamo mettendo in
crisi».
Quest’anno i
biologi australiani hanno decretato la morte della Grande barriera
corallina, il reef più vasto del pianeta con oltre 2300 km di
coralli ormai quasi interamente sbiancati. Ma non va meglio in acque
a noi più familiari: «Il Mediterraneo è ancora più compromesso.
Al problema dell’innalzamento dei mari qui si sommano la forte
salinità di un ambiente chiuso, l’acidificazione, l’arrivo di
300 specie aliene invasive».
Il Mare Nostrum
conserva il 25% della biodiversità marina mondiale e ospita il 30%
dei traffici commerciali, ma ora conta anche 1 tonnellata di plastica
ogni 3 tonnellate di pesce.
Di fronte a tutto questo, conclude
Greco, «non possiamo fare come Ulisse davanti alle sirene: la
comunità scientifica è costretta a sentire il grido della Terra e a
dire le cose come stanno».
Ma anche noi possiamo fare molto:
scegliere cosa mettere nel piatto è un atto politico.