'Inquinamento e Covid: due vaghi indizi non fanno una prova', ulteriori chiarimenti da Scienzainrete.it
Riportiamo parte dell'articolo pubblicato da Scienza in Rete il 26 aprile in seguito alla diffusione del comunicato SIMA che annunciava "importanti scoperte sul particolato e il virus", che in realtà sono "vaghi indizi, del tutto preliminari, ad oggi non ancora soggetti alla peer-review degli esperti del settore"
28 April, 2020
Dispiace di dover rilevare come, anche questa volta, le “scoperte” descritte nei comunicati sono vaghi indizi, del tutto preliminari, ad oggi non ancora soggetti alla peer-review degli esperti del settore [1]; e le conclusioni sono un mix di confusione e wishful thinking.
Il primo vago indizio e l’evidente correlazione che non esisteva
Il primo episodio è stato quello del position paper della SIMA pubblicato sul sito web della SIMA a metà marzo [2], in cui gli autori hanno proposto l’esistenza di una relazione diretta tra “tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori”, sostenendo quindi che una elevata concentrazione di PM10 in atmosfera possa essere un “amplificatore” della diffusione del Coronavirus (e non - si badi bene - dei suoi effetti, ad esempio una maggiore mortalità). La prova sarebbe una “correlazione forte” che gli autori avrebbero trovato fra il numero dei superamenti del limite giornaliero delle concentrazioni di PM10 e il numero di contagiati [3]. Il position paper della SIMA si spinge addirittura a ipotizzare che mentre nelle regioni meridionali italiane (meno inquinate) il modello prevalente di trasmissione virale avviene per contatto fra persone, nelle regioni del Nord Italia maggiormente inquinate a questa modalità si aggiungerebbe l’infezione attraverso il contatto con il “particolato infetto”, riesumando in questo modo l’antica teoria dei miasmi, usata per spiegare la peste in epoca pre-scientifica.
Al di là della solidità fenomenologica della teoria proposta per spiegare il meccanismo di trasporto del Coronavirus da parte del particolato, la teoria non ha alcun sostegno dei dati, contrariamente a quanto affermato. E alcune scelte fatte dagli autori nella scelta dei dati utilizzati per la “correlazione” sono quantomeno molto discutibili, come illustrato in Appendice.
L’ipotesi che il particolato atmosferico possa agire come substrato carrier per il trasporto del virus aumentando così il ritmo del contagio è stata contestata da 70 esperti della Società italiana di Aerosol (IAS), che in una nota [4] hanno espresso molte perplessità e ricordato come la correlazione fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario, accumulo di PM in prossimità del suolo e diffusione del virus non deve essere scambiata per un rapporto di causa-effetto.[5] Di simile opinione il Position paper della Rete Italiana Ambiente e Salute che raccoglie istituzioni del Servizio Sanitario Nazionale e del Sistema Nazionale di Protezione Ambientale.[6]
In conclusione: il position paper non conteneva alcuna prova, ma avanzava una teoria supportandola con elaborazioni molto discutibili.
Il vago indizio spopola nei media
Uno studio preliminare, non ancora pubblicato su riviste scientifiche, e non soggetto ad alcuna peer review di soggetti esterni, rimane solitamente riservato agli autori o a pochi addetti del settore. In un momento delicato come quello di un’epidemia, questa regola dovrebbe ancora di più essere rispettata. Invece gli autori hanno proposto il loro studio in decine di interviste a giornali, radio e televisioni. In queste interviste hanno spesso spiegato che si trattava di risultati preliminari, ma di fatto, come era legittimo aspettarsi, è passato molto spesso il messaggio che – pur se non ci sono tutte le prove - il particolato trasporta il virus. Gli autori si sono giustificati affermando di aver “badato bene a spiegare ai giornalisti che era uno studio preliminare” [7], per cui la colpa sarebbe dei giornalisti; tuttavia, se tutti i giornalisti travisano, significa che il modo in cui è stata comunicata la notizia era inadeguato.
Contrariamente a quanto succede con i rapporti IPCC, in cui le ipotesi di rilevanza per i decisori politici sono accuratamente ancorate a un giudizio sulla loro incertezza, con specifiche linee guida per distinguere fra “probabile”, “molto probabile” ed “estremamente probabile”, gli autori hanno scritto genericamente “Si evidenzia come la specificità della velocità di incremento dei casi di contagio che ha interessato in particolare alcune zone del Nord Italia potrebbe essere legata alle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico che ha esercitato un’azione di carrier e di boost”. L’uso del termine “potrebbe” è molto, troppo generico. Ci sono tante, troppe cose che potrebbero essere. Il lavoro degli scienziati, in particolare durante un’epidemia, dovrebbe essere quello di distinguere con accuratezza le ipotesi speculative, non ancora dimostrate, dai fatti: altrimenti si finisce per contribuire alla confusione della comunicazione, inevitabilmente esistente in materie complesse.
Il secondo vago indizio e il virus che c’è e non c’è
Il secondo caso è quello del Comunicato stampa del 24 aprile “Presenza di Coronavirus sul particolato atmosferico: possibile “indicatore” precoce di future recidive dell’epidemia da COVID-19”, che si basa, anche in questa circostanza, su un lavoro non pubblicato [8].
Qui gli stessi autori del position paper annunciano di aver trovato tracce di RNA virale SARS-CoV-2 nel PM10 atmosferico prelevato in alcune zone di Bergamo e si spingono a ipotizzare l’uso di questa scoperta come importante ai fini delle misure di gestione della fase 2 dell’epidemia COVID-19.
Ma cosa hanno davvero scoperto? Pur se la ricerca non ha ancora superato la peer review e non è ancora stata pubblicata su una rivista scientifica, dalle informazioni preliminari si può desumere che sono stati effettuati dei campionamenti di aria ambientale: in questi campioni, che ovviamente contengono del particolato sospeso in atmosfera, non è “stato rilevato il virus”, ma solo tracce del suo RNA.[9]
La presenza di tracce di virus nel particolato non è affatto una novità, visto che si studiano anche le tracce di virus di tanti millenni or sono presenti nelle carote di ghiaccio [10]. Ma, ovviamente, non si tratta di virus attivi, in grado di essere infettivi. Sono, appunto frammenti, tracce che possono indicare la presenza di virus infettante, ma non la dimostrano, come spiegato in seguito.
Quand’anche venisse confermata in altri studi la presenza di virus ancora attivi sul particolato, questo non comporterebbe la sua infettività. In prima battuta, perché dopo poche ore un virus, in assenza di un ospite da colonizzare e nelle cui cellule replicarsi, non può continuare ad esistere come entità biologica. In seconda battuta, per infettare non bastano uno o pochi virus… ma deve esserci una definita carica virale sotto la quale non vi è infezione, come ribadito in modo assai convincente su Nature dal virologo della Charitè di Berlino, Christian Drosten [11].
Proviamo a chiarire. Queste tracce (o “il tampone” di cui si parla quotidianamente) sono rilevate grazie ad una tecnologia definita polymerase chain reaction (PCR) (che valse il premio Nobel per la Chimica a Kary Mullis nel 1993), grazie alla quale un frammento di DNA può essere amplificato tendenzialmente all’infinito. È in sostanza l’equivalente di un microscopio elettronico che permette di vedere ciò che è invisibile a occhio nudo o con un microscopio ottico ancorché potente. Tuttavia, anche per la PCR, esiste una soglia nei cicli di amplificazione del genoma al di là della quale il segnale si confonde con l’inevitabile “rumore di fondo” per cui la presenza o meno del genoma cercato diventa negativa o indeterminata (nel caso il valore sia molto vicino al valore soglia). I valori riportati nel lavoro sono molto prossimi a questa soglia e decisamente al di sotto di quella indicata da Drosten come spartiacque d’infettività. Inoltre, non è stata eseguita una campionatura di controllo in una regione a bassa presenza di PM10, per esempio in montagna.
Tornando alla presenza delle tracce di RNA sul particolato, gli autori si spingono a sostenere che queste tracce virali sarebbero comunque utili per monitorare l’evolversi dell’epidemia: “Questa prima prova apre la possibilità di testare la presenza del virus sul particolato atmosferico delle nostre città nei prossimi mesi come indicatore per rilevare precocemente la ricomparsa del coronavirus e adottare adeguate misure preventive prima dell'inizio di una nuova epidemia”.
In realtà, si legge nel comunicato che gli autori hanno trovato il virus in 8 dei 22 giorni presi in esame, mentre è certo dal dato dell’aumento dei positivi che in provincia di Bergamo nelle scorse settimane il virus c’è stato in modo continuo. Davvero siamo sicuri che sia una buona idea adottare un “metodo di rilevamento precoce” che non rileva il virus in due terzi dei casi?
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