Il settore agroalimentare si fa più sostenibile: meno sprechi di cibo, filiera corta, packaging 'parlante'
Ricerca dell'Osservatorio Food Sustainability del PoliMI: sono ben 1.158 le startup internazionali dell’agroalimentare nate tra il 2015 e il 2019 che perseguono obiettivi di sostenibilità economica, sociale e ambientale attraverso soluzioni per contrastare la fame, stimolare la transizione a sistemi di produzione e consumo più responsabili
04 June, 2020
L’emergenza Covid19 ha messo a dura prova il settore agroalimentare con ricadute sull’intera filiera, sospensioni di alcune attività, generazione di sprechi ed eccedenze di prodotti rimasti invenduti o non serviti, difficoltà di scambio di materiali tra diverse parti del mondo e calo di manodopera disponibile. In risposta a queste criticità, però, sono nate collaborazioni fra imprese, Terzo Settore ed enti pubblici per garantire la distribuzione di aiuti alimentari e valorizzare le eccedenze, si è riscoperto il potenziale della “filiera corta” che accorcia le distanze a monte e a valle, non solo tramite la vicinanza geografica ma anche l’integrazione verticale, la disintermediazione e lo scambio di informazioni tra gli attori della filiera, per una maggior inclusione e trasparenza; è stata messa in evidenza l’importanza dell'imballaggio per tutelare la sicurezza del cibo e rendere tracciabili i prodotti e la filiera. La gestione dell’emergenza Covid19 offre l’occasione per ripensare l’intero sistema agroalimentare in una logica più sostenibile, grazie anche all’innovazione portata dalle startup agrifood che propongono nuovi modelli di business e nuove soluzioni sostenibili e circolari.
Sono ben 1.158 le startup internazionali dell’agroalimentare nate tra il 2015 e il 2019 che perseguono obiettivi di sostenibilità economica, sociale e ambientale attraverso soluzioni per contrastare la fame, stimolare la transizione a sistemi di produzione e consumo più responsabili, usare in modo più efficiente le risorse idriche e tutelare gli ecosistemi ambientali: circa il 39% in più di quelle rilevate lo scorso anno (835) e il 24% delle 4.909 startup agrifood complessive. Di queste, il 39% ha ricevuto almeno un finanziamento, per un totale di 2,3 miliardi di dollari raccolti, pari in media a 5,2 milioni di dollari a startup. I Paesi con la più alta concentrazione di startup agrifood sostenibili sono Svezia (20, di cui il 50% sostenibili), Olanda (49, di cui il 39% sostenibili) e Finlandia (27, di cui il 37% sostenibili). L’Italia, con 53 startup agrifood di cui solo 7 sostenibili (il 13%), presenta un mercato ancora limitato, che raccoglie appena 300mila dollari di finanziamenti, pari allo 0,01% del totale.
Sono alcuni risultati della ricerca dell’Osservatorio Food Sustainability della School of Management del Politecnico di Milano*, presentata oggi al convegno online “La sostenibilità vien innovando! Informazione e circolarità, Chiavi di volta per una filiera più sostenibile e inclusiva”.
“L’emergenza Covid19 ha evidenziato quanto sia importante fornire agli attori della filiera gli strumenti e le conoscenze necessari per garantire la buona tenuta del settore, anche di fronte a forti criticità e trasformazioni sistemiche, che è anche la mission dell’Osservatorio Food Sustainability - afferma Alessandro Perego, Direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale e Responsabile Scientifico dell’Osservatorio -. Le imprese agroalimentari sono chiamate a dotarsi di buone pratiche e avvalersi di partnership solide, sia di filiera che cross-settoriali, e rivedere i processi interni, se non interamente il proprio modello di business, in un’ottica di maggior sostenibilità e resilienza, dando spazio a soluzioni innovative. L’innovazione, promossa dalle nuove startup sostenibili, in crescita di quasi il 40% rispetto allo scorso anno, può essere una leva importante per rispondere alle attuali sfide del settore, trasformando le difficoltà in opportunità di sviluppo sostenibile”.
“Puntare su informazione e circolarità significa ottimizzare le risorse produttive, ridurre il più possibile gli sprechi lungo la filiera e utilizzare linguaggi e strumenti diversi, come le tecnologie e il packaging, per rendere la filiera più trasparente e i suoi operatori più partecipi e consapevoli – aggiunge Raffaella Cagliano, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio -. In un momento in cui c’è una forte necessità di ricostruire, a partire dalla fiducia degli operatori del settore e dei consumatori, l’informazione e la circolarità ricoprono un ruolo ancora più fondamentale e diventano gli elementi chiave per una maggior sostenibilità sociale, ambientale ed economica del nostro sistema agroalimentare”.
Le startup – Gli obiettivi di sostenibilità su cui si concentrano maggiormente le startup agrifood sostenibili sono l’impegno per migliorare accesso alle risorse produttive, sbocco sul mercato e reddito dei piccoli produttori (245 startup), l’aumento della produttività e della capacità di resilienza dei raccolti ai cambiamenti climatici (177 startup) e la riduzione di sprechi e eccedenze alimentari lungo la filiera (136). Seguono la gestione più efficiente delle risorse naturali utilizzate nei processi produttivi (128), le azioni per minimizzare l’impatto ambientale delle sostanze chimiche impiegate in agricoltura e dei rifiuti prodotti (96), garantire a tutti l’accesso al cibo (69 startup) e ottimizzare l’uso delle risorse idriche (64). Chiudono la classifica degli obiettivi di sostenibilità più perseguiti la conservazione, il ripristino e l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri e d’acqua dolce (56), la sensibilizzazione a stili di vita più sostenibili (23), la promozione di infrastrutture verdi (22) e il riciclo e il miglioramento della qualità dell’acqua (22).
Le 1.158 startup agrifood sostenibili censite dall’Osservatorio hanno raccolto complessivamente 2,3 miliardi di dollari, pari a un investimento medio di 5,2 milioni di dollari a startup. Il Nord America, trainato dagli USA, si conferma la prima area del mondo sia per investimenti complessivi, pari a 1,7 miliardi di dollari, sia per finanziamento medio, equivalente a 7,2 milioni di dollari. L’Europa è la seconda area per capitale totale raccolto, con 312 milioni, davanti all’Asia (308 milioni), ma le startup asiatiche raccolgono in media 4,2 milioni, contro i 2,7 delle europee. Crescono il fermento imprenditoriale e i finanziamenti anche in Oceania (33 milioni, con una media di 3,7 milioni a startup), Sud America (19 milioni, 1,3 milioni a startup) e Africa (17 milioni e media di 1,9 milioni a startup).
Quasi quattro startup sostenibili su dieci sono Service Provider che analizzano dati e monitorano le prestazioni attraverso dispositivi smart per ottimizzare le attività agricole e ridurre gli sprechi (456 startup, il 39% del totale); una su cinque si occupa di Food Processing e punta su ingredienti naturali e cibi proteici alternativi (231 startup, il 20%); il 15% (179 startup) è un Technology Supplier, che fornisce tecnologie per l’agricoltura di precisione e propone soluzioni per la coltivazione idroponica.
“Le startup puntano sempre di più a soluzioni innovative per spingere la transizione a sistemi di produzione più sostenibili e a modelli di consumo responsabili – commenta Paola Garrone, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability -. A livello internazionale crescono i finanziamenti complessivi alle startup sostenibili, ma si registra un forte calo del capitale mediamente ricevuto dalle singole realtà (-17% negli USA). I principali promotori di innovazione sostenibile si confermano i fornitori di servizi, mentre conquistano terreno le giovani imprese che operano nello stadio della trasformazione alimentare, superando i fornitori di tecnologie, anche se la tecnologia resta un fattore chiave nello sviluppo di nuove soluzioni a supporto della filiera e di prodotti alimentari innovativi”.
I modelli di economia circolare per ridurre gli sprechi – L’Osservatorio ha analizzato un campione di 1.534 punti vendita, 28 centri di distribuzione (CeDi), 3.705 punti cottura con servizio ristoro (mense) e 80 punti cottura centralizzati (depositi e centri cottura), per indagare le pratiche maggiormente adottate per la prevenzione e la gestione delle eccedenze alimentari, i fattori abilitanti e le barriere che ne ostacolano l’adozione negli stadi della distribuzione e della ristorazione collettiva.
Nella distribuzione il 56% del campione misura le eccedenze in modo sistematico con una frequenza predefinita e sulla base di una suddivisione merceologica dei prodotti. A livello centrale le funzioni responsabili dei processi di prevenzione e gestione delle eccedenze sono Corporate Social Responsibility e Vendite, mentre nei singoli punti vendita queste attività sono affidate perlopiù al direttore del punto vendita (70%). Le pratiche di prevenzione più frequenti sono la formazione e la sensibilizzazione del personale sul tema degli sprechi alimentari (84% del campione, il 70% vuole continuare anche in futuro) e soluzioni di packaging per una migliore conservazione dei prodotti. Analizzando la gestione delle eccedenze, tutti i rispondenti donano le eccedenze a banchi alimentari o ad associazioni non-profit e oltre metà delle aziende che possono farlo per policy interne vendono prodotti vicini alla scadenza o con difetti di packaging in aree dedicate o con prezzi scontati all’interno dei punti vendita (56%).
L’impegno del top management è il fattore che più facilita l’adozione di queste pratiche nella distribuzione, seguito, secondo il 50% del campione, dalla pressione mediatica e degli stakeholder e dall’introduzione di incentivi fiscali e normativi. Le barriere che più ostacolano le pratiche di prevenzione sono la mancanza di risorse dedicate (70% del campione) e la scarsa preparazione del personale (42%), le pratiche di gestione sono frenate principalmente dall’incertezza di un ritorno economico, quelle di riciclo e recupero energetico dalla scarsa conoscenza delle soluzioni disponibili e dalle difficoltà di applicazione.
La metà delle aziende della ristorazione collettiva non misura le eccedenze in maniera sistematica, ma solo sporadicamente e per specifici progetti in corso. La Produzione interna è la funzione responsabile della prevenzione e gestione delle eccedenze alimentari, mentre la figura responsabile è il Direttore della mensa o il Capo cuoco o Manager di cucina. Alle azioni già attivate dalla distribuzione si aggiungono la programmazione flessibile della capacità produttiva, la scelta di menu attinenti alle preferenze dei consumatori, la previsione accurata del numero di pasti e la semplificazione delle materie prime. Il primo ostacolo alla prevenzione delle eccedenze è la scarsa collaborazione fra i diversi operatori della filiera (50%), mentre la gestione è frenata dalle difficoltà di implementazione e dall’incertezza normativa.
“All’interno degli stadi di distribuzione e di ristorazione collettiva è forte l’attenzione riposta dalle aziende sulla prevenzione e sulla gestione delle eccedenze - afferma Marco Melacini, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability -. Si sta andando verso una sistematizzazione della misurazione delle eccedenze generate, adottando tempistiche definite e una suddivisione merceologica. In generale, la priorità a livello di gestione viene data al recupero e alla ridistribuzione per il consumo umano, che resta una delle pratiche maggiormente adottate dalle imprese di questi stadi. Scendendo lungo la Food Waste Hierarchy, rimangono tuttavia alcuni ambiti ancora poco esplorati, soprattutto per quanto riguarda il riciclo e il recupero energetico delle eccedenze, che trovano un forte interesse da parte degli attori ma diverse difficoltà di implementazione”.
Il sistema di distribuzione del cibo a Milano prima e dopo il Covid19 – A gennaio 2019 è stato inaugurato a Milano, nel quartiere Isola, l’”Hub di Quartiere contro lo Spreco Alimentare”, un progetto nato da un protocollo d’intesa tra Politecnico di Milano, Comune di Milano Food Policy, Assolombarda Confindustria Milano, Monza e Brianza, Lodi, in sinergia con il programma QuBì – La ricetta contro la povertà infantile – coordinato dalla Fondazione Cariplo, con lo scopo di ridurre lo spreco di cibo e l’insicurezza alimentare nell’area urbana di Milano. Il progetto ha creato un sistema operativo di ridistribuzione di eccedenze alimentari donate da una rete di imprese, basato su un hub logistico, allo scopo di offrire ai beneficiari una fornitura alimentare bilanciata da un punto di vista nutrizionale.
Nel primo anno di attività del progetto sono state recuperate oltre 120 tonnellate di eccedenze alimentari, per un valore di quasi 500mila euro, ed è stato recuperato quasi un terzo delle eccedenze generate dai partecipanti della GDO e ristorazione collettiva. A febbraio 2020 risultavano servite 24 associazioni non-profit, in grado di raggiungere 1.307 famiglie (1.488 bambini e 2.478 adulti).
“Era stata pianificata l’apertura di un secondo Hub nel Municipio 3 di Milano, quando è iniziata l’emergenza sanitaria – afferma Giulia Bartezzaghi, Direttore dell’Osservatorio Food Sustainability -. Le attività dell’Hub sono state sospese temporaneamente ma il modello operativo e organizzativo è stato esteso a un sistema di distribuzioni di pacchi alimentari, coordinato dal Comune di Milano, basato su 10 Hub temporanei che hanno permesso di consegnare oltre 60 tonnellate di cibo a settimana a 5mila famiglie, per un totale di 16mila persone raggiunte”.
La sostenibilità del food packaging – Un imballaggio è sostenibile non soltanto quando aumenta la sicurezza degli alimenti e riduce l’impatto ambientale, ma anche quando persegue obiettivi sociali di estensione dell’accesso al cibo, attraverso etichette facilmente leggibili e interpretabili, aumento del reddito e delle opportunità di lavoro, con l’inclusione di comunità svantaggiate nella produzione ed etichette trasparenti sull’origine del prodotto, e miglioramento della salute, utilizzando etichette che agevolano la comprensione dei valori nutrizionali e promuovono stili di vita sani ed equilibrati.
Le nuove tecnologie consentono al packaging di comunicare diverse informazioni agli operatori della filiera e ai consumatori finali. “Il packaging ‘parlante’ impatta sulla supply chain in molti modi - spiega Barbara Del Curto, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability –. In primo luogo, sulle operations: soluzioni smart come i tag RFID e i sensori possono facilitare una gestione ottimizzata del cibo nei diversi stadi, evitando lo spreco e migliorando tracciabilità, anticontraffazione, conservazione degli alimenti e monitoraggio delle temperature. Facilita, poi, la comunicazione al consumatore delle date critiche e delle altre informazioni in etichetta, utilizzando sistemi di realtà aumentata per costruire un dialogo bidirezionale con l’utente che dura anche dopo la fase di acquisto”.
Si diffondono anche imballaggi che utilizzano nuove tecnologie per il recupero e il riciclo dei materiali per adattarsi ai principi dell’economia circolare, preservare il capitale naturale e ottimizzare il rendimento delle risorse. Come i Circular Inputs, soluzioni di packaging basate sull’uso di materiali riciclati o bio o la cui produzione sfrutta energia da fonti rinnovabili, le soluzioni Resource Recovery, che trasformano e valorizzano le risorse giunte a fine vita, le soluzioni Lifecycle Extension, che prolungano la vita utile dei prodotti alimentari e degli imballaggi, e il modello Product as a service, che consente al consumatore di utilizzare risorse messe a disposizione da terzi senza essere proprietario del prodotto.
La filiera corta – La “Short Food Supply Chain” è una “filiera corta” basata non soltanto sulla vicinanza geografica fra operatori e fra produttore e consumatore finale, ma anche su una relazione diretta fra produttori, trasformatori e consumatori e su una maggiore trasparenza delle informazioni. Analizzando 17 realtà dei settori lattiero-caseario, delle carni bovine/suine e salumi, l’Osservatorio ha individuato quattro modelli di filiera corta che operano entro distanze geografiche limitate ma con caratteristiche diverse. Al modello Downstream Oriented, appartengono imprese che a monte integrano un’elevata vicinanza geografica con relazioni molto strette con i produttori, mentre a valle le distanze geografiche e relazionali si allargano, compensate dalla mole di informazioni diffuse tramite il packaging. Il modello Fully Integrated presenta una filiera interamente integrata a monte e uno stretto controllo delle informazioni lungo tutta la rete grazie alle forti relazioni fra operatori. Il gruppo Information-rich presenta una distanza geografica maggiore con gli stadi a monte della filiera, ma investe molto sulla trasparenza delle informazioni attraverso sistemi di gestione integrati con gli allevatori. Il gruppo End-to-end è quello con la maggiore attenzione all’integrazione fra prossimità informativa e geografica.
“L’emergenza sanitaria mette in luce ancora più chiaramente la necessità e l’opportunità di ripensare il sistema agroalimentare, valorizzando le filiere locali e rafforzando lo scambio di informazioni abilitato dalle tecnologie lungo filiere geograficamente più estese, in modo da diversificare i canali di fornitura e di vendita, rendendo l’intero sistema più resiliente - afferma Federico Caniato, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability –. Le short food supply chain permettono di rispondere ad alcune sfide della sostenibilità, come lo sviluppo delle aree rurali, il supporto ai piccoli produttori, la necessità dei consumatori di poter verificare sicurezza, qualità e sostenibilità delle produzioni. Ma per accorciare le distanze fra produttori e consumatori la sola prossimità geografica non basta, è necessario investire nella collaborazioni fra attori della filiera e nella trasparenza e condivisione delle informazioni”.