LETTI PER VOI - Pechino, l´aria che uccide record di vittime dello smog
È emergenza sanitaria, spostate intere fabbriche - da Repubbica del 03.07.2006
03 July, 2006
<b>Federico Rampini</B>
Era da vent´anni che non avevo un´influenza o una bronchite, e neppure un banale raffreddore. Da un mese invece mi affligge una tosse fastidiosa e tenace, con catarro, mal di gola, abbassamento della voce, bruciori agli occhi. Sono stato a farmi visitare dai medici di Bailey, un ospedale privato usato dagli stranieri a Pechino nel quartiere delle ambasciate. Il primo responso dello specialista, un giovane professore formato a Hong Kong, di fronte alla radiografia dei miei polmoni è stato: «Smetta subito di fumare». Ho obiettato di aver già smesso molti anni fa a San Francisco, costretto dal proibizionismo anti-fumo californiano. Il medico ha allargato le braccia sconsolato. «Ah, lei vive in permanenza a Pechino da più di due anni? Allora tutto si spiega: benvenuto fra noi». Stare un giorno in mezzo allo smog di Pechino equivale a fumare almeno un pacchetto di sigarette. La patologia che ora colpisce anche me è la sindrome cinese, ben nota a tutti gli stranieri che si sono trasferiti ad abitare qui.
Migliaia di occidentali sono già passati attraverso la stessa "rivelazione" prima di me. Alcune multinazionali americane stanno decidendo di accorciare i periodi di rotazione dei loro dirigenti in Cina, per paura di essere trascinate in tribunale con richieste di indennizzi miliardari di fronte al primo caso di un manager che si prenda il cancro ai polmoni dopo essere stato qualche anno a Pechino, Shanghai o Canton. A noi stranieri i medici vietano tassativamente di fare esercizio fisico all´aperto, un consiglio ignorato da milioni di cinesi che ogni mattina all´alba invadono parchi e giardini per il rito del tai-chi. Pechino con oltre venti milioni di abitanti è già vicina ad avere tre milioni di automobili, eppure la motorizzazione privata è solo agli inizi: si stima che le vetture in circolazione quintuplicheranno nei prossimi 15 anni. Già così il solo traffico rovescia ogni giorno nel cielo della capitale 3.600 tonnellate di emissioni carboniche e particelle cancerogene. L´aria di Pechino - come quella di Shanghai, Canton, Shenzhen, Chongqing, Nanchino, Tianjin, Chengu e decine di megalopoli cinesi che ormai superano la soglia dei dieci o anche venti milioni di abitanti - è quasi irrespirabile in tutte le stagioni, con punte di emergenza estreme quando l´afa estiva accentua il disagio dell´ozono e dello smog «fotochimico» aggravato dall´intensità dei raggi ultravioletti.
Sedici delle venti città più inquinate del pianeta oggi sono cinesi, secondo i dati della Banca Mondiale. All´inizio della sua rincorsa al capitalismo globale e alla crescita economica la Cina era il regno della bicicletta - nei primi anni Ottanta c´era mezzo miliardo di ciclisti - oggi si avvicina ai 30 milioni di auto. Ne avrà 130 milioni entro il 2020. Quanto ossigeno avremo ancora da respirare, per allora?
Eppure su Pechino il governo cinese sta investendo sforzi e risorse eccezionali, in vista delle Olimpiadi del 2008: un appuntamento decisivo per la consacrazione del prestigio internazionale della Nuova Cina, ma che rischia di essere rovinato da una nube tossica di smog che può rendere la capitale impraticabile sia per gli atleti che per i milioni di visitatori stranieri. Consapevoli di questa minaccia, le autorità hanno iniziato a muoversi con largo anticipo, per esempio inaugurando il trasloco forzato di quasi tutti i grandi impianti industriali: fino a poco tempo fa infatti dentro il perimetro urbano di Pechino c´erano ancora altiforni siderurgici e impianti petrolchimici. Ma i rimedi adottati si stanno rivelando dei palliativi inefficaci.
In questa «delocalizzazione interna» al paese molte fabbriche si sono spostate di poche centinaia di chilometri, scaricando nelle regioni limitrofe un inquinamento che il più delle volte i venti restituiscono alla stessa Pechino. Di recente la capitale ha registrato una lunga serie di giornate irrespirabili, avvolte in una nebbia marrone densa e acre. Le autorità hanno dato la colpa ai contadini dello Hebei, la provincia immediatamente circostante a Pechino: ignorando i divieti, al termine dei raccolti gli agricoltori bruciano la paglia provocando gigantesche colonne di fumo che invadono l´atmosfera (anche questo è un sottoprodotto del benessere perché un tempo la paglia veniva conservata per scaldarsi d´inverno, oggi anche i contadini possono permettersi il carbone). Ma gli imputati restituiscono l´accusa con sdegno: con che coraggio la capitale fa queste prediche all´agricoltura, dopo aver trasformato lo Hebei nel suo immondezzaio industriale trasferendo le fabbriche che non vuole più in città? In ogni caso quest´anno il governo ha fallito clamorosamente i suoi obiettivi di risanamento fissati in vista delle Olimpiadi. Le «giornate cieli azzurri» su Pechino sono diminuite invece di salire.
Dall´inizio del 2006 solo 60 giorni hanno registrato una qualità dell´aria accettabile per la salute degli abitanti. Le conseguenze di questo sviluppo economico sugli esseri umani sono drammatiche. Ogni anno 600.000 cinesi muoiono di cancro ai polmoni, che è balzato in testa alla classifica dei tumori nella grandi città: rappresenta il 50% della mortalità per cancro fra gli uomini e il 35% fra le donne. Inoltre l´età media in cui il tumore ai polmoni colpisce sta abbassandosi velocemente. Negli ultimi trent´anni l´apparizione di questa malattia nei pazienti si è anticipata di dieci anni. Nel 1977 il cancro ai polmoni rappresentava il 18% dei tumori, oggi il 30%.
L´inquinamento preoccupa i dirigenti della Repubblica popolare anche perché è sempre più spesso una fonte di conflittualità sociale che in prospettiva potrebbe destabilizzare il regime. Secondo gli stessi dati ufficiali forniti dal Congresso nazionale dal 2001 al 2005 le autorità hanno ricevuto 2,53 milioni di petizioni di protesta per cause legate all´inquinamento. Si verificano con una frequenza crescente gli scontri violenti con le forze dell´ordine nei casi in cui i disastri ambientali contaminano le acque potabili e distruggono terreni coltivabili.
Il degrado ecologico della Cina non è soltanto un problema che riguarda un miliardo e trecento milioni di abitanti della nazione più popolosa del pianeta. Per molti anni l´Occidente ha contribuito ad aggravare questi problemi esportando in Cina le sue produzioni più inquinanti. Tuttora tra le motivazioni inconfessate che spingono molte multinazionali europee, americane e giapponesi a produrre in Cina, oltre al minor costo della manodopera c´è anche una legislazione ambientale meno severa della nostra. Ma oggi il fenomeno si ritorce contro di noi. Lo smog cinese - ivi compresi 26 milioni di tonnellate di anidride solforosa - viaggia sui jetstreams, attraversa i continenti e arriva anche nei polmoni di chi vive in Europa o in America. Le piogge acide che avvelenano i terreni agricoli cinesi arrivano sulle nostre tavole, incorporate nelle mele e in tutti i prodotti ortofrutticoli di cui la Cina è diventata il primo esportatore mondiale.
Salvare la Cina da un´apocalisse ambientale è una sfida mondiale. Da molti anni il Giappone dedica la maggior parte dei suoi finanziamenti pubblici alla Cina a progetti di cooperazione «verde». Ora anche l´Italia fa lo stesso. Si apre oggi a Pechino una settimana dedicata alla cooperazione italo-cinese per la tutela dell´ambiente. Sono già in stato di attuazione avanzata 57 progetti per la conservazione delle risorse, il risparmio energetico, la gestione delle acque, i nuovi sistemi di trasporto, l´agricoltura biologica. Tra le operazioni-pilota più interessanti: il nuovo edificio della facoltà di scienze ambientali dell´università di Pechino realizzato con tecnologie d´avanguardia made in Italy per il risparmio energetico e l´uso di fonti rinnovabili; l´uso delle biomasse come il letame suino per produrre energia; progetti forniti «chiavi in mano» dall´azienda dei trasporti pubblici di Roma (Atac) per un monitoraggio elettronico del traffico nei grandi centri urbani e la riduzione delle punte di smog automobilistico; gli impianti verdi forniti da grandi aziende italiane come la Merloni; la valutazione dell´impatto ambientale di mega-progetti come la controversa diversione delle acque dal Fiume Azzurro al Fiume Giallo per rispondere alla desertificazione di tutta la Cina settentrionale.
Sono iniziative importanti che avvengono su un frontiera cruciale per i nostri interessi vitali. Il nodo decisivo resta il modello di sviluppo cinese. Nonostante che le tematiche ambientali appaiano sempre più spesso in cima alle priorità nei discorsi dei massimi leader come il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, nelle scelte quotidiane dell´apparato dirigente la realtà è diversa. A livello locale l´industrializzazione massiccia continua a fare premio perché appare come la scorciatoia più rapida per diffondere il benessere. Ottocento milioni di cinesi ancora oggi vivono nelle campagne, con un reddito che è un quarto degli abitanti delle città. La spinta irresistibile verso l´urbanizzazione fa esplodere i consumi energetici e l´inquinamento. E´ di questi giorni una significativa battuta d´arresto negli obiettivi di governo: Pechino ha ufficialmente rinunciato a misurare nella sua contabilità nazionale un Prodotto interno lordo «verde» che tenga conto dei costi ambientali dello sviluppo. Il Pil verde sarebbe risultato sensibilmente inferiore al Pil tradizionale, la cui crescita è un simbolo dell´ascesa della Cina come superpotenza mondiale.