Non eco-scettici ma eco-realisti
Intervento del Ministro per l'Ambiente - da La Stampa del 03.06.2008
11 June, 2008
Non sono «eco-scettica», ma nemmeno «eco-illusa». Lo dico perché da queste colonne nei giorni scorsi sono stata arruolata nella pattuglia di quanti sono insofferenti dei vincoli di Kyoto.
La posizione assunta in sede di «G8 Ambiente» a Kobe credo vada spiegata, cominciando col ricordare che il Protocollo di Kyoto, che punta a limitare le emissioni di gas ad effetto, non è stato recepito dal maggiore produttore di gas-serra al mondo: gli Usa. Inoltre Cina e altri paesi, in via di tumultuosa crescita come India e Brasile, che consumano e chiedono sempre più energia, hanno ratificato il Protocollo, che però per essi non prevede impegni di limitazione delle emissioni.
Noi riteniamo che gli accordi internazionali in materia di cambiamenti climatici del tipo «Kyoto» abbiano un senso se riusciremo a farne un impegno di tutti. Perché è ovvio che la validità di una tale intesa ha un valore quasi simbolico se lasciamo fuori chi «inquina» di più. Ed è altrettanto ovvio che caricare le imprese europee di costi aggiuntivi per adeguarsi a Kyoto mentre i concorrenti cinesi e americani non sostengono quei costi rappresenta un gap grave per la nostra competitività.
L’Italia comunque si è impegnata, ratificando il protocollo, a contribuire per la sua parte, assieme ai paesi Ue, a ridurre le emissioni. Il problema è il modo in cui l’Europa nel ‘98 ha ripartito tagli ai gas-serra da parte dei singoli Paesi. Il negoziato per la definizione di tale ripartizione, inizialmente guidato da una metodologia che contemplava una combinazione di diversi criteri, si è concluso con un accordo «politico». Pertanto la ripartizione degli impegni di riduzione non hanno riflesso adeguatamente le «circostanze nazionali» e quindi il potenziale di riduzione dei diversi Paesi. Ad esempio l’Italia, che nel 1990 era caratterizzata da emissioni pro capite pari a 7,8 Mt di CO2 ha avuto un impegno di riduzione del -6,5%, mentre la Francia con emissioni pro capite pari a 7,0 Mt di CO2, non ha avuto impegni di riduzione, ma solo un obbligo di stabilizzazione (impegno dello 0%).
A Paesi come la Germania e il Regno Unito, che avevano una struttura produttiva a bassa efficienza energetica con alto impiego di carbone, tale ripartizione ha permesso di «combinare» la riduzione delle emissioni con l’ammodernamento del sistema produttivo, e quindi ha rappresentato uno stimolo alla crescita.
Il raggiungimento dell’obbligo di riduzione comporterà invece per il nostro Paese costi superiori a quelli che mediamente dovranno sostenere altri Paesi europei con significative conseguenze in termini di competitività intra-Ue ed un impegno di abbattimento delle emissioni circa doppio rispetto alla media europea. Su tale scenario ha influito anche il portafoglio energetico dell'Italia che è privo del nucleare, fonte energetica a zero emissioni serra, al contrario dei principali paesi Ue che possono contare quindi su una elevata sicurezza/autonomia energetica.
Così l’Italia, negli ultimi anni non solo non ha ridotto le emissioni ma le ha aumentate del 12%. Siamo quindi, anche a causa del meccanismo di riparto penalizzante a livello europeo, oltre il 18% al di sopra della quota assegnata e corriamo il rischio di pesantissime sanzioni. Oggi si discute del «dopo Kyoto» i cui parametri per gli anni 2013-2020 saranno decisi a Copenhagen alla fine del 2009. Nel marzo del 2007 l’Europa a 27 ha deciso di anticipare i tempi e fissare per il nostro continente i famosi impegni »20-20-20», che significa ridurre le emissioni del 20%, raggiungere il 20% di quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e aumentare del 20% l’efficienza energetica entro il 2020. Questo piano, definito l’anno scorso, non è stato ancora assunto formalmente dall’Ue ed io credo che, responsabilmente, l’Italia debba esprimere in sede europea le proprie valutazioni sui criteri di assegnazione delle quote-paese per evitare scelte ulteriormente penalizzanti per l’economia italiana.
Non si tratta di essere eco-scettici quindi, semmai eco-realisti e di riaffermare il principio secondo cui deve ridurre di più le proprie emissioni chi più inquina.
Ciò non toglie che dobbiamo muoverci puntando con risolutezza sulle rinnovabili. Il governo ha intenzione di affrontare il problema della risorsa ambiente e quello, connesso, del fabbisogno energetico seriamente, il che significa in primo luogo non assumere impegni che non si potranno mantenere. Significa anche progettare un modello di medio-lungo periodo in cui l’Italia possa affrancarsi progressivamente dalla dipendenza dai combustibili fossili, causa prima dell’effetto serra, ma che è anche una fonte di energia sempre più costosa, forse presto insostenibile economicamente oltre che ecologicamente. In questa strategia si inserisce anche l’opzione nucleare, che non vediamo come la panacea dei problemi, ma come una componente importante di quel mix di fonti di cui l’Italia ha bisogno se vuole ridurre la sua dipendenza dall’estero (e dai combustibili fossili) ed attenuare il peso della bolletta energetica.
Vorrei discutere serenamente di questi temi. Senza ideologismi, senza ipocrisie, tenendo i piedi per terra. Perché anche la demagogia è una grave forma d’inquinamento. E non ci sono leggi per contrastarla.