Birra alla spina: il riuso non va dismesso ma implementato
03 August, 2022
Sino a qualche tempo fa chi sceglieva di bere una birra alla spina poteva pensare di eliminare l’impatto di imballaggi, seppur riciclabili come bottiglie e lattine. In futuro le cose potrebbero cambiare.
Come abbiamo raccontato nel precedente articolo nutriamo più di qualche perplessità sulla scelta intrapresa da Carlsberg Italia di dismettere il sistema di riutilizzo dei fusti in acciaio convertendo il suo mercato della birra alla spina al nuovo sistema di spillatura DraughtMaster. Il nuovo sistema impiega fusti in plastica (PET) da 20 litri “usa e getta” che confluiscono nel rifiuto urbano per poi essere smaltiti a spese dei comuni.
Tutto il mondo scientifico ci avverte che la sfida ambientale che abbiamo di fronte non si potrà affrontare se, tutti i soggetti che possono giocare un ruolo, si limiteranno al fare “meno male” invece che da subito il “ meglio possibile”. Condividendo questa posizione, abbiamo inviato come associazione un appello a Carlsberg Italia (e alla aziende interessate dal nuovo sistema) affinché non dismettesse per sempre il sistema dei fusti riutilizzabili.
La proposta che continueremo a rinnovare all’industria che commercializza birra alla spina, e non solo, si articola in due azioni:
1) Mantenere il sistema riutilizzabile per il settore Horeca. Progettare un nuovo sistema riutilizzabile che possa migliorare l’impatto dei fusti in acciaio e mantenere i vantaggi del nuovo sistema di spillatura valutando anche altri materiali e tecnologie;
2) Organizzare e soprattutto sostenere finanziariamente da subito, in virtù del principio della responsabilità estesa del produttore, un sistema di raccolta a fine vita. Tale sistema, se non non può essere da subito riutilizzabile, deve dare vita ad un riciclo bottle to bottle (da fusto a fusto) per mantenere il valore del materiale. Tale sistema dovrebbe, come per gli altri imballaggi industriali riutilizzabili, prevedere un deposito su cauzione sui fusti in PET che ne garantisca la restituzione una volta vuoti.
Questo impegno nel take back è anche in un certo senso “dovuto” in quanto i fusti, come imballaggi industriali, godranno dal gennaio 2018 un contributo ambientale agevolato. Questo perché, teoricamente, gli imballaggi utilizzati nei circuiti commerciali dovrebbero usufruire di un circuito di raccolta pagato dalle aziende e non confluire nelle raccolte differenziate del rifiuto urbano. Da quanto ci risulta questi fusti finiscono invece o nell’indifferenziato o nella raccolta della plastica con costi che ricadono sulla filiera post consumo e sulle comunità.
La nostra proposta è perfettamente allineata con gli obiettivi e i target contenuti dalle direttive europee in materia di rifiuti e rifiuti da imballaggio (in fase di revisione) e del pacchetto Economia Circolare con una roadmap dedicata per una Strategia sulla plastica in via di definizione.
In particolare, in un’Europa povera di materie prime, i paesi membri devono adottare misure volte ad aumentare l’efficienza nell’uso dei materiali attraverso l’innalzamento di target più stringenti per riuso e riciclo. Ma è soprattutto sulla prevenzione dei rifiuti che vanno concentrati gli sforzi affinché diventi, anche nella prassi, l’azione prioritaria.
Venendo al soggetto che deve accollarsi i costi del fine vita degli imballaggi in virtù del principio europeo della responsabilità estesa del produttore (1) c’è qualcosa che non funziona nel nostro paese. Infatti, come ha rilevato l’indagine conoscitiva dell’antitrust sui rifiuti resa nota lo scorso anno, il sistema di responsabilità condivisa sui costi generati a fine vita dagli imballaggi recepito da noi ha fatto sì che l’80% dei costi della raccolta e avvio al riciclo degli imballaggi ricadesse sulle comunità, e in minima parte sui produttori.
La proposta di direttiva ambientale che modifica la direttiva europea sui rifiuti ( 2008/98 CE) contenuta all’interno del pacchetto sull’economia circolare propone l’introduzione dell’articolo 8-bis in materia di responsabilità estesa del produttore. In particolare, il comma 4 dell’art. 8-bis demanda agli Stati Membri l’adozione delle misure necessarie ad assicurare che i contributi finanziari versati dai produttori in adempimento ai propri obblighi derivanti dalla responsabilità estesa del produttore coprano la totalità dei costi di gestione dei rifiuti per i prodotti che sono immessi sul mercato dell’Unione.
La nostra proposta è inoltre allineata con il programma della Ellen McArthur Foundation per l’economia circolare che indica, in uno specifico piano, la necessità di convertire al riutilizzo almeno il 20% in peso degli imballaggi totali immessi al commercio. Tale conversione al riutilizzabile, sia per gli imballaggi primari che industriali (secondari e terziari) può avvenire anche attraverso una riprogettazione dei “delivery models” e cioè dei modelli di commercializzazione e/o somministrazione di un prodotto.
Carlsberg Italia grazie ai risparmi calcolati nell’LCA del sistema che si traducono in meno emissioni di Co2 e consumo di acqua (i fusti partivano e tornavano per essere sanificati e riempiti in un unico stabilimento) dichiara di essere “allineata con l’impegno globale a generare maggiore benessere con un minor impatto, come richiesto sia dall’Accordo sul Clima di Parigi che dagli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (Sdg)”.
Tuttavia il raggiungimento degli obiettivi SDG e dell’accordo sul clima richiedono una drastica riduzione di tutti gli impatti. In natura tutto è collegato: la produzione dei rifiuti genera emissioni climalteranti e ha un impatto diretto sul consumo di risorse e sul fenomeno del marine litter.
Come associazione di comuni che conosce le criticità della gestione dei rifiuti sul territorio, ma soprattutto considerando il momento storico, consideriamo “una sconfitta” il passaggio da un sistema riutilizzabile a uno a perdere. A maggior ragione quando il passaggio viene prevalentemente giustificato sulla base degli esiti rilevati dall’LCA (riportati nel nostro primo appello) e per almeno per due ordini di ragioni. In prima battuta perché tale analisi per sua natura non considera gli impatti complessivi di una determinata scelta.
In questo caso l’LCA non ha considerato lo spreco di materia di origine fossile pari al 100% dei fusti immessi al commercio. Ogni fusto a fine vita (vedi foto) rappresenta 380 grammi di materia persa che finisce nel sistema di raccolta degli imballaggi causando dei costi al sistema post consumo prima di essere smaltito in discarica (al Sud) o nei termovalorizzatori, che non vengono bilanciati con la vendita di materiale ai riciclatori .
In seconda battuta perché, da un’azienda che fa della sostenibilità un valore fondante, ci si aspetterebbe una valutazione più ampia anche sotto il profilo economico. La creazione di valore da parte delle azienda si misura pur sempre sulla performance complessiva a livello ambientale sociale ed economico.
A questo proposito ci limitiamo a segnalare che sono stati fatti diversi studi che dimostrano che l’impatto occupazionale generato dal riuso e dal riciclo e da modelli di economia circolare è infinitamente più alto di qualsiasi gestione dei rifiuti finalizzata allo smaltimento.
Preoccupa, allo stato delle cose, l’annuncio che il sistema alla spina “presente in 27 mila punti vendita” ha ridotto a suo favore di 7 punti punti percentuali in cinque anni i consumi di birra in vetro e lattina e che l’obiettivo di Carlsberg Italia sia un’ulteriore riduzione di altri dieci punti nei prossimi cinque anni. Preoccupa, visto che il gruppo Carlsberg è il terzo produttore mondiale di birra, che il sistema verrà diffuso all’estero: Inghilterra, Germania e paesi scandinavi e soprattutto in paesi come India, Nepal e Vietnam.
Se in Italia e in Europa i fusti al momento non vengono riciclati, figurarsi cosa succederà in India, Nepal e Vietnam paesi per lo più sprovvisti di sistemi basilari di gestione dei rifiuti che sono responsabili delle maggiori quantità di plastiche che finiscono nei mari.(2)
Preoccupa a livello nazionale che aumentino le quantità di imballaggi non riciclabili che mettono in crisi un sistema di gestione degli imballaggi che sta dimostrando difficoltà nel tenere il passo con l’aumento delle raccolte differenziate della plastica (sostenendo finanziariamente i comuni) e a garantire una gestione circolare delle plastiche.
Non è in alcun modo “consolante” apprendere che Carlsberg sta valutando come può essere granulato il fusto per produrre materia prima seconda. Di plastica dal basso valore post consumo che può dare origine a prodotti di minore valore (downcycling: ricavare ad esempio da bottiglia in PET del tessuto pile) ne abbiamo già in grandi quantità senza sapere cosa farne. Non abbiamo un mercato favorevole al riciclo e ai riciclatori e neanche un quadro legislativo che incentivi l’utilizzo di plastica riciclata.
Metterci una pezza ex post, quando il prodotto non è stato progettato per avere una seconda vita, è praticamente impossibile. Anche restando nell’ambito di uno stesso polimero come il PET non è possibile riciclare insieme imballaggi come bottiglie con vassoietti, vaschette e film flessibile.
Il problema, ammesso che esistano i requisiti per fare partire un processo industriale di riciclo dei fusti (ad esempio quantità necessarie a garantire flussi costanti di materiale idoneo) , è soprattutto di tipo economico: chi finanzia la raccolta, l’avvio a riciclo e il riciclo di questi fusti?
RUOLO DEI CITTADINI NEL CAMBIAMENTO
Come spesso accade i cittadini e le comunità si trovano a dover subire decisioni di cui pagheranno una parte dei costi senza avere la possibilità di partecipare alle scelte. Tutta la comunità scientifica e le direttive europee indicano l’urgenza di cambiare stili di vita e di consumo ma come può il singolo cittadino fare scelte sostenibili quando il contesto ( nell’insieme di offerta di prodotti a disposizione e di legislazioni che ne normano l’uso) spinge in tutt’altra direzione?.
Facciamo un esempio attinente non solamente al settore della birra ma anche delle altre bevande. In un paese dove un consumatore di birra ha a disposizione l’opzione di consumare birra alla spina da birrificio locale a km zero o quasi (fusti riutilizzabili) oppure birra in contenitori che vengono riciclati al 90% ( poiché è in vigore un sistema di deposito su cauzione per lattine e bottiglie), il cittadino ha a disposizione due opzioni di cui una dal minore impatto ambientale.
Il cittadino che vive in un paese dove esistono solamente opzioni monouso e i sistemi di gestione del fine vita degli imballaggi non funzionano non ha in suo potere la possibilità di “fare la cosa giusta”.
Pertanto, come già argomentato in altre occasioni su queste pagine, al primo posto nella gerarchia delle responsabilità ci sono quelle politiche e quelle industriali che determinano per oltre il 90% l’impatto che un prodotto o servizio potrà avere lungo tutto il suo ciclo di vita.
In recente articolo “Three years to safeguard our climate” pubblicato su Nature un team internazionale di autorevoli ricercatori e scienziati avverte che abbiamo tre anni di tempo per invertire la rotta.
L’inazione o le azioni deboli da parte di industria e governi che stanno caratterizzando questi anni cruciali sono davvero incomprensibili anche perché le conseguenze colpiranno tutti. Anche chi vuole continuare a brindare e far festa sulla tolda del Titanic.
(1) ERP: i regimi per la responsabilità estesa del produttore sono strumenti adeguati sia per prevenire la formazione di rifiuti di imballaggio, sia per creare sistemi che garantiscano la restituzione e/o la raccolta degli imballaggi usati e/o dei rifiuti di imballaggio generati dal consumatore, da altro utilizzatore finale o dal flusso di rifiuti nonché il riutilizzo o il recupero, compreso il riciclaggio degli imballaggi e/o dei rifiuti di imballaggio raccolti.
(2) Lo stesso team di ricercatori ha appena pubblicato su Nature un nuovo studio“ Production, use, and fate of all plastics ever made”
Leggi anche a questo proposito l’articolo uscito su Materia Rinnovabile: Economia circolare e responsabilità del produttore: un matrimonio che può funzionare
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