Uno studio australiano boccia le performance ambientali di Olanda, Danimarca e Norvegia
Secondo una ricerca dell'Università di Adelaide, nonostante la solida cultura ambientale, gli stati del nord Europa risultano tra quelli con il più alto impatto sull'ambiente. Sotto accusa la pesca non sostenibile e le emissioni di gas serra. In fondo alla classifica anche molti paesi asiatici ed altre potenze emergenti
20 May, 2010
a cura di Martina Doglio Cotto
Uno studio internazionale (Evaluating the relative environmental impact of countries) pubblicato pochi giorni fa ha stilato la “pagella ambientale” di molti paesi di diverse parti del mondo. Il lavoro, rintracciabile sul sito www.plosone.org, è firmato da un gruppo di scienziati guidato da Corey J.A. Bradshaw dell'università di Adelaide, Australia (la sensibilità degli australiani in tema di ambiente è cambiamento climatico è nota). I tre studiosi - Bradshaw, Xingli Giam (Singapore) e Navjot S. Sodhi (USA) -, che hanno cercato di individuare dei parametri obiettivi per valutare le performance ambientali degli stati, si propongono di identificare buoni e cattivi esempi, e di elaborare linee guida comuni per ridurre l'impatto ambientale. I paesi oggetto di studio sono 228, esaminati con un duplice approccio proporzionale (basato sulla disponibilità di risorse entro ciascun paese) ed assoluto (l'impatto complessivo del paese in relazione alla disponibilità di risorse su scala globale) e valutati sulla base di sette parametri: perdita di area forestale, conversione dell'ambiente naturale, sfruttamento delle risorse marine, uso di fertilizzanti chimici, inquinamento delle acque, emissioni di carbonio, minaccia alla biodiversità.
Ad occupare le ultime posizioni delle classifiche sono spesso paesi asiatici. L'indice proporzionale, infatti, ha classificato Singapore, Korea, Qatar, Kuwait, Giappone, Thailandia, Bahrain, Malaysia, Filippine e Olanda come gli stati a maggior impatto ambientale, mentre Brasile, Cina, Indonesia, Giappone, Messico, India, Russia, Australia e Peru hanno dato il peggior risultato in termini di impatto assoluto. Per molti di questi stati, l'aumento di ricchezza sembra essere la causa più importante di impatto ambientale. Sorprendenti, per certi versi, le performance di paesi come Olanda, Danimarca e Norvegia, che, nonostante la riconosciuta sensibilità ambientale, finiscono in coda alle classifiche, soprattutto a causa dei valori critici della pesca e delle emissioni di CO2. Segno evidente che l'evoluzione tecnologica e la cultura ambientale non bastano a ridurre l'impronta ecologica di uno stato, anche perché molti paesi ricchi esternalizzano le produzioni, “trasportando” il loro impatto in altre zone del pianeta.
La ricerca sottolinea, in definitiva, che non solo la comunità internazionale deve incoraggiare l'adozione di politiche di sostenibilità nei paesi meno sviluppati, specialmente asiatici, ma che bisogna prima di tutto migliorare la consapevolezza e gli stili di vita degli abitanti degli stati con un più alto livello di benessere. Le frequenti crisi ambientali che coinvolgono il pianeta sono, secondo l'equipe di ricercatori, il corollario dell'eccessivo uso di risorse da parte dell'uomo. L'elevato degrado e la perdita di specie e di habitat, infatti, stanno compromettendo le funzioni degli ecosistemi, che sono vitali per miliardi di persone in tutto il mondo. La continua aggressione alla natura, nonostante gli allarmi lanciati negli ultimi anni, unitamente all'incremento della popolazione umana (che oggi si aggira attorno ai 7 miliardi di individui, ma che è stimata a 9-10 miliardi entro il 2050), potrebbe determinare un rapido e deciso declino della qualità della vita sulla Terra. L'aumentata competizione per le risorse potrebbe inoltre condurre ad un aumento dei conflitti civili e delle guerre. Secondo lo studio australiano, è necessario individuare al più presto i paesi che necessitano di soluzioni più urgenti, e supportarli nella conservazione e nel ripristino del patrimonio ambientale. Bisogna, di contro, evidenziare quelle politiche che hanno consentito la riduzione del degrado ambientale, e indicarle come esempio per gli altri paesi(i politici devono avere informazioni efficaci su cui basare le loro decisioni per ridurre l'impatto e ripristinare gli ecosistemi).
Nell'ottica di minimizzare le emissioni di carbonio, il comportamento ambientale deve essere misurato tramite standard internazionali, come il City Development Index (CDI) e l'impronta ecologica. Tuttavia, questi indici presentano problemi di inadeguatezza nel descrivere la complessità dello “sviluppo sostenibile”, mancanza di comprensibilità e assunzioni arbitrarie. Includono, infatti, soprattutto valori di benessere umano e dati economici, per cui il peso della componente ambientale è di solito sottovalutato o male interpretato. Infatti, i criteri usati per classificare le nazioni dipendono dai particolari obiettivi della stessa classifica, dalle assunzioni fatte e dalle ipotesi poste per spiegare le tendenze tra nazioni. Economisti e sociologi - osservano i tre ricercatori - hanno tentato di spiegare queste tendenze tramite indicatori di capacità ambientale basati essenzialmente su densità di popolazione, benessere e struttura governativa delle società umane, con vari risultati. Il più controverso di questi indicatori, a cui gli autori fanno esplicito riferimento, è la “curva di Kuznets”, associata alla teoria della modernizzazione ecologica. Secondo questo modello capacità ambientale e benessere pro capite seguono una curva a forma di U rovesciata, mettendo in relazione i diversi paesi. In pratica il più alto impatto ambientale è correlato all'alto livello economico e al consumo di risorse. Il modello prevede, tuttavia, che oltre una certa soglia, le società più ricche possano ridurre tale impatto per mezzo di tecnologie più avanzate e più pulite, e, anche, tramite la pretesa di un comportamento ambientale migliore da parte del cittadino. La prima parte della curva descrive abbastanza bene la situazione reale, ma i risultati mostrati nel modello sono equivoci, secondo gli autori, perché esistono dati che dimostrano che la minaccia alle specie incrementa linearmente con lo sviluppo economico. Questo spiega anche perché l'Eritrea ha un basso impatto rispetto all'Olanda, che non usa il proprio suolo per l'agricoltura, che esternalizza molto e che è un paese nordico, in cui il consumo di energia pro capite è elevato.
Dai dati dello studio emerge ancora una correlazione tra il benessere di un paese ed il suo livello di deforestazione. Molti metodi associano il livello socio-economico di un paese alla sua qualità ambientale. Un altro dato importante, molto dibattuto, è la relazione significativa individuata fra il livello di corruzione di un governo e la perdita di biodiversità in quel territorio. La ricerca, in sintesi, tenta di fornire un modello, il più semplice ma esauriente possibile, sul monitoraggio dell'impatto ambientale, che consenta di classificare i paesi secondo parametri che, sottolineano gli autori, non devono essere inficiati dai dati di benessere economico. Questi valori potranno fornire strumenti politici e pratici alle regioni più compromesse a livello ambientale, al fine di ottenere un miglioramento globale.