Carta o bioplastica?
Piccola inchiesta. Quali quelli più sostenibili? Quali quelli più economici? In attesa che diventi legge il divieto di distribuzione di shoppers non biodegradabili, facciamo un piccolo viaggio nel mondo dei sacchetti
17 June, 2010
Che gli imballaggi in genere siano utili è fuor di questione. Basta pensare ai vantaggi che hanno portato: dalla conservazione del cibo alla sua “portabilità”…
Altrettanto fuor di questione è il fatto che il basso costo degli stessi ha portato nel corso degli anni ad un utilizzo eccessivo, figlio anche della necessità delle aziende produttrici di distinguersi attraverso l’imballaggio stesso. E così la dimensione dei contenitori è cresciuta a dismisura, e i materiali di fabbricazione sono diventati sempre più quelli plastici, quindi non biodegradabili (o per lo meno non in tempi ragionevoli) e non sostenibili. Overpackaging si dice in linguaggio tecnico.
La battaglia contro questo “spreco” è ormai iniziata da tempo, ed esistono numerose esperienze di “riduzione degli imballi”. Da quella più radicale dell’eliminazione completa dell’imballo (vendita di prodotti alla spina) alla riduzione delle dimensioni e di conseguenza dei quantitativi di materie prime utilizzate messa in atto da alcune catene della grande distribuzione, alla scelta di materie prime più ecologiche e sostenibili (spesso anche riciclate)…
L’attenzione però si è da qualche tempo spostata su di una categoria particolare di imballaggi: i sacchetti di plastica non biodegradabili. La legislazione europea ne impone l’abbandono. Il governo Prodi aveva recepito la direttiva fissando al 31 dicembre 2009 (con 3 anni di anticipo) il termine ultimo per l’entrata in vigore del divieto di distribuzione di sacchetti non biodegradabili, termine che è stato prorogato di un anno dall’attuale governo.
I sostituti dei vecchi shoppers saranno per lo più sacchetti in “bioplastica”, ovvero polimeri creati a partire da materiali di origine biologica. In Italia il maggior produttore di tali materiali è senza dubbio Novamont, produttrice del MaterBi, polimero ricavato dall’amido di mais.
Ma sono possiamo considerare il MaterBi e le altre bioplastiche sul mercato come veramente sostenibili?
La prima verifica è quella di controllare le certificazioni ottenute dal materiale.
La certificazione che è probabilmente la più seria e la più stringente che abbiamo oggi è quella detta “C2C” (cradle to cradle) sviluppata dalla società MBDC (McDonough Braungart Design Chemistry). Nella lista dei prodotti certificati dalla MBDC non ci sono tracce di nessuna bioplastica.
L’assenza è sicuramente imputabile alla rigidità delle regole della MBDC, che richiede la completa sostenibilità (riciclabilità) dei materiali utilizzati nella creazione del prodotto e la totale provenienza da fonti rinnovabili dell’energia utilizzata, ma non solo.
La ragione principale che impedisce la certificazione delle bioplastiche è la loro provenienza da un’agricoltura non sostenibile. Dati del 2007 dimostrano come la coltivazione del mais utilizzi una grande quantità di energia derivante da combustibile fossile. Sicuramente meno di quanta utilizzata nella fabbricazione dei classici sacchetti in polietilene (circa il 50% in meno), ma comunque in quantità considerevole.
Gli stessi tempi di decomposizione naturale non sono propriamente strettissimi: si parla di qualche mese. Sicuramente un notevole passo avanti rispetto alle decine di anni che impiegano i sacchetti tradizionali, ma ben lontani dal concetto di sostenibilità a cui si fa riferimento di norma. Inoltre alcune voci critiche sottolineano come la totale biodegradabilità possa verificarsi solo quando questi materiali sono smaltiti correttamente in un sito di compostaggio (lavorando a temperature di 60-70 °C).
Ma polimeri classici e bioplastiche non sono i soli competitor nella "guerra del sacchetto". Da quando si è stabilito che anche i sacchetti di carta possono essere buttati nella raccolta dell’umido (ovviamente quando sporchi di resti organici e non gettabili nei cassonetti della carta) perché totalmente biodegradabili, anche gli shoppers cellulosici entrano in competizione.
Biodegradabilità, riciclabilità, possibilità di riutilizzo. La scelta più green sembra essere dunque quella dei sacchetti in carta. A maggior ragione se in carta riciclata.
Fin qui ragionamenti a tavolino.
Proviamo però ad andare a comprare i sacchetti da un grossista e scopriamo come l’aspetto economico non possa non influenzare le scelte che faremo. Se i sacchetti in plastica classici hanno più o meno lo stesso costo di quelli “bio” (all’incirca 2 centesimi di euro al pezzo), molto più cari sono quelli in carta, che sulle stesse dimensioni vengono a costare anche 9 volte tanto (fra i 15 e i 18 centesimi di euro a pezzo) .
Cifre che, una volta entrata in vigore la norma che prevede il divieto di distribuzione (sia a titolo gratuito che oneroso) di sacchetti in materiale non biodegradabile, non potranno che portare a scegliere le buste in bioplastica, soprattutto per quel che riguarda commercianti e grande distribuzione.
Resta un'alternativa ai sacchetti usa e getta, che rappresenta la scelta più sostenibile in assoluto. Una scelta che potranno fare i consumatori, gli acquirenti, i clienti della piccola e grande distribuzione: utilizzare (e riutilizzare) borse in tessuto (magari proveniente da piantagioni biologiche) portandosele direttamente da casa.