Roberto Cavallo: “Non esiste una direttiva che obbliga all'abbandono del sacchetto usa e getta. C'è però il principio di precauzione”
Il ricorso di Unionplast contro la delibera del Comune di Torino che mette al bando le buste in plastica non biodegradabile. Intervista di Eco dalle Città a Roberto Cavallo, presidente di ERICA ed AICA: “Non esiste una direttiva comunitaria che obbliga all'abbandono del sacchetto usa e getta ma c'è il cosiddetto principio di precauzione”. E sulla compostabilità dei sacchetti, afferma Cavallo: “Esiste una norma molto chiara e a quella bisogna attenersi”
30 November, 2010
Unionplast, promotore del ricorso contro la delibera del Comune di Torino che mette al bando i sacchetti di plastica non biodegradabile, afferma che il provvedimento su un profilo normativo è palesemente disallineato rispetto alla direttiva europea 94/62 che disciplina la gestione degli imballaggi e dei rifiuti da imballaggio, in quanto, non esiste nessuna norma comunitaria che preveda il divieto di produzione e commercializzazione di sacchetti non biodegradabili. Conferma questa affermazione?
Da un punto vista squisitamente formale ha ragione Unionplast perché non esiste una direttiva che obbliga all'abbandono del sacchetto usa e getta. Se questo è l'unico punto specifico su cui si poggia la norma, c'è il rischio che Unionplast abbia ragione. Dopodiché, c'è da fare altre considerazioni a latere, ovvero: c'è il cosiddetto “principio di precauzione” che va evocato sempre e in ogni norma. Quando c'è un'altra soluzione che a parità di funzione è meno impattante dal punto di vista ambientale, il principio di precauzione dell'Unione europea vuole che si adotti l'altra. Secondo punto: c'è una nuova direttiva europea, la 98/2008, che all'articolo 4 prevede una gerarchia gestionale dei rifiuti (prevenzione, riuso, recupero di materia). E anche in questo caso, come in qualsiasi pianificazione, il Comune, soprattutto un'area metropolitana, ha voce in capitolo in questo senso. Nel momento in cui l'amministrazione locale identifica un'azione e ne trova delle sostitute che rispettano meglio la gerarchia, può attuarle tenendo conto delle legittime posizioni ai sensi della libera concorrenza. Per cui, nello specifico, il Comune evocando il principio di prevenzione deve dire “occorre che circolino” meno sacchetti; evocando il principio del riuso, deve promuovere delle borse che possono essere riutilizzate più volte; e nel riciclo di materia ci stanno benissimo anche i sacchetti di plastica a patto che vadano al riciclo. L'ultima chiave importante per cui delle posizioni locali, o anche nazionali, hanno senso di esistere è l'articolo 8 della direttiva: la “responsabilità estesa del produttore”. Nel momento in cui Unionplast, o chi produce i sacchetti di plastica, evoca il fatto che siano riciclabili e li ricicla, deve però essere anche responsabile di quelli non riciclati, che vanno in giro nell'ambiente. Se chi ha presentato il ricorso si facesse carico, amministrativamente ed economicamente, di tutti i danni provocati dai sacchetti non conformemente avviati al riciclo, probabilmente, loro stessi capirebbero per primi che costerebbe molto meno riconvertire la produzione facendo dei sacchetti in plastica più resistenti e non usa e getta.
Rispetto alla compostabilità dei sacchetti, la delibera del Comune di Torino parla di sacchetti biodegradabili, preferibilmente, conformi ai criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario. Con il preferibilmente, non c'è il rischio di vedere sacchetti non propriamente biodegradabili e compostabili?
Su questo aspetto esiste una norma comunitaria. Attenzione: si trovano in commercio sacchetti con il codice di riciclabilità delle plastiche con dei polimeri addizionati con composti che accelerano la degradabilità ma non sono assolutamente biodegradabili e compostabili ai sensi della norma UNI EN 13432. In questo caso esiste una norma molto chiara sulla biodegradabilità e compostabilità dei sacchetti e a quella bisogna attenersi. Se invece aggiriamo la norma mettendo semplicemente in commercio dei composti “fotodegradabili” o degradabili, il polimero chimico rimane nell'ambiente anche se non lo vediamo più. Questa è una palese violazione della norma UNI.
Chialchia, direttore di Unionplast, ha affermato che solo in determinate condizioni i sacchetti in bioplastica possono biodegradarsi in poco tempo. Quali sono i tempi e i modi corretti di biodegrazione di un sacchetto bio?
E' vero quando si afferma che per consentire una corretta compostabilità delle bioplastiche ci vogliono delle condizioni di trattamento precise ed, in particolare, mantenere una certa temperatura all'interno del cumulo di compost per un determinato tempo. Detto questo però, è anche vero che in un impianto industriale di compostaggio, arrivato al fondo del processo, viene vagliato cosa non è stato decomposto. Il materiale viene riportato in testa all'impianto e continua fino a quando non viene decomposto.
Vale la pena ricordare che esistono due grandi famiglie nei sacchetti cosiddetti biodegradabili. Oltre ai sacchetti in bioplastica esistono quelli di origine cellulosica, “di carta”, che hanno delle condizioni di degradabilità paragonabili a qualunque altro scarto organico. Entrambe i sacchetti hanno aspetti positivi e alcune piccole criticità nell’utilizzo, ma dovremo abituarci dal momento che dal 2010, ai sensi del nuovo testo unico ambientale laddove si raccoglie in modo separato l’organico, sarà obbligatorio utilizzare sacchetti biodegradabili e compostabili.
Città di Torino - Regolamento di polizia urbana - Articolo 10 bis: Divieto di distribuzione di sacchetti non biodegradabili per l'asporto delle merci - dal sito del Comune di Torino
1 commenti
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04.12.2010 14:12
ma ci soni solo i sacchetti di plastica? e le bottiglie, le vaschette, i giocattoli , ecc. ecc. ecc. ecc. ma i problemi dell'ambiente sono solo gli shoppers? e perche' non eliminare tante altre cose. ci dite poi che faranno gli operai delle tante aziende?. qualcuno qua ci mangia.........