State of the World 2011. Coltivare prodotti locali per nutrire il pianeta e ridurre di un terzo le emissioni CO2
La presentazione romana del rapporto State of the World 2011 - Nutrire il pianeta del Worldwatch Institute. Quest'anno il rapporto punta il dato contro i danni provocati dall'agricoltura intensiva, responsabile di un terzo della CO2 rilasciata ogni anno nell'atmosfera
23 March, 2011
Annalisa Mancini
Tornare a coltivare prodotti locali, con metodi tradizionali e sostenibili, è la soluzione per combattere la fame nel mondo e azzerare le emissioni di gas serra derivanti dall'agricoltura intensiva, responsabile di un terzo della CO2 rilasciata ogni anno nell'atmosfera. E' quanto emerge dal rapporto State of the World 2011 - Nutrire il pianeta del Worldwatch Institute, presentato ieri a Roma dall'autrice Danielle Nierenberg, co-direttore del progetto, nel corso di una conferenza organizzata a Roma dal WWF Italia e dall’Università LUISS Guido Carli. La versione italiana, pubblicata da Edizioni Ambiente, è a cura di Gianfranco Bologna, direttore scientifico di WWF Italia; la prefazione è di Carlo Petrini, presidente e fondatore di Slow Food Italia.
State of the World 2011 (il rapporto 2010 era dedicato ai consumi sostenibili) punta il dito contro i danni provocati da agricoltura intensiva e globalizzazione nei Paesi in via di sviluppo. E' il modello occidentale la causa della fame nel mondo: lo studio della Nierenberg documenta lo stato dell'agricoltura in 25 Paesi africani e dimostra come le monocolture e la diffusione di un modello occidentale di agricoltura che punta all'esportazione a danno delle economie nazionali, e richiede grandi quantità di acqua e fertilizzanti, abbia impoverito l'ambiente e affamato le comunità locali. Il cibo prodotto in Africa ha altri destinatari: Paesi occidentali e Oriente, e alimenta un traffico massiccio responsabile di ulteriori emissioni di gas serra.
Anche l'esperienza di Slow Food, presente alla conferenza, mostra come nell'arco di cinquant'anni, dalla conquista dell'indipendenza nel 1960 a oggi, il continente africano, prima autosufficiente, abbia accumulato uno spaventoso deficit alimentare. Perché esporta all'estero i prodotti tradizionalmente destinati al consumo interno (è il caso del Senegal, che invia in Thailandia il 90% della propria produzione di riso) e ha abbandonato le colture autoctone, le uniche tagliate su misura per le condizioni climatiche e le esigenze nutritive delle comunità locali.
In Guinea Bissau, ad esempio, altro storico produttore del cereale, le risaie hanno ceduto il posto a sconfinate piantagioni di anacardi destinati all'estero, con il risultato di rendere il Paese dipendente dal cibo che arriva, in una paradossale triangolazione, proprio dalla Thailandia. Insieme al riso che prima produceva da solo arrivano nel continente africano, dopo aver percorso migliaia di chilometri, anche dadi da brodo, latte condensato e merendine americane. 'Cosa c'è di sbagliato nelle politiche agricole e di sviluppo del continente? ‘Il modello occidentale ' spiega Serena Milano, segretario generale di Slow Food. ‘La soluzione? 'Tanti piccoli progetti che partono dal basso'. In linea con studi di FAO e IFAD, che promuovono il ritorno all'agricoltura tradizionale, la Nierenberg e la Milano non si stancano di ripetere che i nuovi-vecchi modelli agricoli sono in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare del pianeta.
Il 23 marzo, alle ore 20:30, lo studio sarà presentato a Torino, al Museo di Scienze Naturali. Il 24 marzo, alle 18:30, lo studio sarà presentato a Bologna, Libreria delle Moline (per informazioni: WWF Italia)