Sacchetti: ma il mercato si è autoregolato o no?
Mentre il sondaggio della Camera di Commercio di Milano afferma che il sacchetto di plastica è utilizzato da meno del 35% dei cittadini milanesi, le aziende produttrici restano a fare i conti con un bando “fantasma”, senza regole chiare. La maggior parte dei clienti sembrerebbero orientate sugli additivi, ma senza certezze per il futuro
18 April, 2011
Il sondaggio sull’uso dei sacchetti pubblicato dalla Camera di Commercio di Milano afferma che solo nel 20% dei casi i milanesi sceglierebbero il sacchetto di plastica nuovo alla cassa o in negozio per contenere spesa e acquisti. Nelle conclusioni tratte dalla Camera si legge dunque che nell’ultimo anno sarebbero stati risparmiati 84 milioni di sacchetti di plastica, dato che è stato ripreso e “festeggiato”da diversi giornali, noi compresi. Al di là del fatto che, come abbiamo ribadito in questo articolo, il sondaggio non può ovviamente provare che questi dati siano reali, avendoli dedotti – come confermato dall’ufficio stampa della Camera – dalle risposte degli intervistati, resta un dubbio: ma davvero abbiamo cambiato abitudini così in fretta? Davvero a soli tre mesi dal bando e con tanto di scorte ancora in circolazione, su 10 persone appena 2 accettano il famigerato sacchettino?
Oltretutto il sondaggio non fa alcuna differenza fra sacchetto bio e sacchetto di plastica: su 690 intervistati alla domanda “Per la spesa/ gli acquisti che cosa utilizza?”, “Sacchetti nuovi” ottiene il 19% delle risposte complessive: poco, decisamente poco.
Sebbene ciò non significhi che solo il 19% usa i sacchetti - la domanda era a risposta multipla – gli intervistati che hanno dichiarato di usare anche o talvolta i sacchetti non superano comunque il 35%. Possibile? Chissà se i risultati sarebbero stati gli stessi facendo il sondaggio all’uscita delle casse, con telecamera in mano.
Ma intanto i produttori che cosa dicono?
Abbiamo intervistato – anche noi telefonicamente e senza telecamera, va detto! – una ventina di produttori e distributori di sacchetti che lavorano in area milanese, per cercare di capire che aria tira a tre mesi dall’entrata in vigore di quello che sempre più assomiglia ad un bando fantasma, al di là dei sondaggi.
Le ultime notizie giunte dai piani alti del Ministero parlavano di “periodo di adeguamento”, in cui la Commissione tecnica incaricata di definire contorni e contenuto del divieto avrebbe valutato come il mercato avrebbe reagito alla novità, prima di prendere provvedimenti. “L’intenzione è quella di lasciar passare un po’ di tempo, ovviamente monitorando con attenzione quello che accade, per capire se e come il mercato riesce ad autoregolarsi, a riassestarsi senza crisi. Poi valuteremo se sarà il caso di intervenire” affermava il portavoce del Ministro Prestigiacomo il 14 gennaio. E’ il caso di intervenire, ci dicono.
Ai produttori di sacchetti che gentilmente hanno accettato di rispondere alle nostre domande, abbiamo chiesto sostanzialmente due cose: cosa chiedono a loro i clienti da quando il bando è entrato in vigore e come hanno smaltito le scorte rimaste in magazzino? (Le famose scorte che i commercianti possono distribuire gratis (se acquistate nel 2010) ma che i produttori dal 1° gennaio non possono più vendere, se vale la proprietà transitiva).
Praticamente tutti gli intervistati hanno dichiarato che i clienti che si rivolgono a loro al momento brancolano nel buio. Che poi è la stessa cosa che afferma di fare quasi la metà di loro, dunque possiamo dire che c’è parecchia gente brancolante e in attesa di risposte. Fra le opzioni a norma di legge, la più gettonata resta quella dei sacchetti additivati: prestazioni migliori della bioplastica compostabile, prezzo notevolmente più basso. Domanda nostra: ma i clienti si fidano? Sono sicuri che il Ministero non finirà per gettare anche questi nel calderone dei banditi? Risposta loro: Non siamo sicuri nemmeno noi, ma in questo decreto (decreto?) cosa c’è di sicuro?
“Per ora abbiamo scelto gli oxobiodegradabili: ci sembra il compromesso migliore perché è riconosciuto a livello europeo e i nostri clienti possono affrontare il costo” racconta un piccolo imprenditore. E la bioplastica? Non è una scelta più sicura, per essere a prova di legge? “Non la vogliono. E il motivo è semplice: soltanto la grande distribuzione può permettersi di ordinare le bioplastiche, perché il quantitativo minimo è troppo alto per la maggior parte dei negozianti, e questo a causa dei costi di produzione. Oltretutto la plastica compostabile dopo sei mesi comincia a deteriorarsi, quindi solo chi ha uno smercio notevole può permettersi di acquistarla in grandi quantità. Certo, se poi il bando includerà anche gli additivi bisognerà trovare un’altra soluzione”.
Fra le altre possibilità c’è la carta, che sembra essere la scelta preferita per il settore non alimentare, ma che non è una soluzione per chi vende articoli pesanti. Le borse riutilizzabili? Qualcuno ha detto sì, soprattutto al tessuto non tessuto e alle alternative più economiche, ma quasi nessun cliente ha pensato di sostituire completamente gli usa e getta. Scelta strategica suicida, pare.
E le scorte? A nessuno è venuto in mente di venderle in nero, sotto banco? Fra tutti gli intervistati due sole aziende hanno lasciato intendere, fra le righe e a prova di cimice, che in effetti questa via esiste. E’ molto probabile che siano più di due, ma è altrettanto vero che l’allarme generale e il bisogno di sperimentare nuove soluzioni a lunga durata hanno agito da deterrente e molti commercianti non se la sono sentita di rischiare. E allora dove sono finite le scorte che immaginavamo accumularsi nei magazzini?
A sorpresa, la maggior parte delle aziende ha risposto di essersi organizzata per tempo, e di aver avuto solo una piccola quantità di materiale da smaltire. Un paio hanno affermato di essersi rivolte al mercato europeo, e pochissime hanno ammesso di non avere la più pallida idea di cosa fare con i sacchetti rimasti.
Insomma, questa non è un’indagine scientifica, ma una chiacchierata con chi ha avuto la pazienza e la disponibilità di raccontarci la propria versione dei fatti, sincera o no che fosse. Su un punto però sono tutti d’accordo: il mercato non può autoregolarsi, si parla di investimenti e di rischi che le piccole aziende – spesso a conduzione famigliare - non possono permettersi correre. Restano in attesa di risposte.
Il commento di Stefano Ciafani (Legambiente) per Eco dalle Città
“Io mi auguro che i dati del sondaggio siano reali: se solo il 35% dei Milanesi utilizza ancora sacchetti di plastica è già un grande risultato. Ora, non sono sicuro che la percentuale sia corretta, però guardandosi in giro si ha la percezione di un cambiamento. Non tanto nei negozi, ma nei supermercati sempre più persone scelgono la borsa riutlizzabile. E questa per noi è una vittoria, perché abbiamo sempre detto che non volevamo una sostituzione 1 a 1 fra sacchetti.
Per quanto riguarda le opzioni scelte dai commercianti in alternativa alla plastica, Legambiente è fortemente contraria agli additivi. Dal nostro punto di vista sono solo un incipriamento del sacchetto tradizionale. Meglio la carta piuttosto, se il compostabile è troppo caro. La situazione comunque resta in evoluzione: il Ministero sta lavorando sulla norma che dovrà integrare le disposizioni attuali ed è possibile che si stabilisca uno spessore minimo per i sacchetti in plastica non biodegradabile. Voci non confermate indicavano come limite 400 micron, che è ovviamente un errore – per capirci, 400 micron è lo spessore di un vasetto di yogurt – o forse 40, che però è davvero troppo poco. Io penso che lo spessore ideale potrebbe essere 80 micron, cioè praticamente il doppio dei sacchetti di plastica più spessi che ora sono in circolazione. In questo modo sarebbero davvero riutilizzabili, poi sta a noi farne buon uso”.