Intervista a Stefano Ciafani: qualità dell’aria in Italia e obiettivi inderogabili
Eco dalle città fa il punto della situazione con Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente, sugli sforamenti del PM10, sulle Arpa (agenzie regionali della protezione dell’ambiente) e sulle reti di monitoraggio della qualità dell’aria. Per Ciafani: “Il numero degli sforamenti (35) non è casuale ma nasconde un rischio sanitario”
23 November, 2011
Al termine del convegno “Il sistema dei controlli ambientali: le buone pratiche in Italia” svolto a Taranto, martedì 22 novembre 2011, presso la Sala della biblioteca civica Pietro Acclavio, Eco dalle città ha intervistato Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente
In tema di controlli ambientali, nel suo intervento ha citato l’agenzia ambientale americana EPA (Environmental Protection Agency). È possibile fare un confronto tra il sistema italiano e quello americano? Come sono organizzati i due sistemi di controllo?
In linea teorica il sistema è simile nell’organizzazione, poiché negli Stati Uniti c’è un’Epa federale, che sovrintende, appunto, a tutta la federazione statunitense, e poi ogni stato ha una sua agenzia Epa. Quindi per certi versi il modello che c’è in Italia ripercorre questo: l’ISPRA (quella che era una volta AMPA, poi APAT, oggi ISPRA) è l’agenzia che a livello nazionale coordina il lavoro delle singole agenzie regionali. A parte questo, però, le Arpa italiane non hanno niente a che fare, purtroppo, con le Epa statunitensi. Lì la politica ha investito molto in conoscenze, in sperimentazioni, in formazione, in personale, ciò che in Italia è stato fatto solo in alcune regioni e in altre c’è ancora un gran lavoro da fare. Soprattutto nel centro-sud le sedi Arpa sono costituite soprattutto da personale amministrativo, ci sono pochi tecnici, mancano le strumentazioni. L’Arpa Puglia, ad esempio, fino a tre anni fa, non riusciva a monitorare neanche le diossine, pur essendo questa la regione in cui si producono le maggiori quantità di diossine, e questo la dice lunga su come sono messe alcune agenzie regionali. Se c’è la volontà politica si può attuare un cambio di passo. Qualche anno fa, infatti, la Regione Puglia ha deciso di investire sull’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente e devo dire che i risultati si sono visti.
È anche vero che scontiamo 40 anni di gap, dal punto di vista delle conoscenze e delle esperienze. Gli Stati Uniti sono partiti molto prima.
Certo, partiamo con grande ritardo, ed è più faticoso, ma c’è il rovescio della medaglia. Vedere come hanno fatto gli altri con grande anticipo, permette a chi viene dopo di bruciare le tappe, perché c’è già un modello che funziona e che si può imitare.
Noi facciamo una grande fatica, ancora, a ripetere il modello delle migliori esperienze internazionali, ma l’iniziativa di oggi serviva proprio a raccontare che anche nelle Arpa italiane ci sono delle esperienze positive e molto avanzate. L’obiettivo è quello di fare in modo che queste esperienze siano replicate in altre agenzie.
Il direttore del Dipartimento Provinciale di Terni riferisce in una intervista il caso di cabine di monitoraggio della qualità dell’aria in sovrannumero, nella sua provincia. La rete di monitoraggio in Italia è adeguata, o è diffusa piuttosto a macchia di leopardo? È presente un numero sufficiente di centraline, anche in relazione al numero di abitanti?
Non proprio. Ci sono alcune esperienze, soprattutto nel Sud, che gridano vendetta, e si tratta delle principali aree industriali. In Sicilia, ad esempio, il siracusano ha una rete di monitoraggio dell’inquinamento atmosferico che non è assolutamente adeguata a fronteggiare quella che è un’emergenza ambientale non da poco. Quella di Siracusa, Augusta, Priolo, Melilli, è un’area industriale molto importante, ma il sistema di monitoraggio dell’inquinamento atmosferico insufficiente, non proprio da settimo paese più industrializzato al mondo. E ci sono diverse situazioni di questo tipo, anche in altre realtà. L’Italia ha forti ritardi, sull’inquinamento atmosferico come su altri monitoraggi. Il paese si deve strutturare, il governo nazionale deve raccogliere questa sfida, come pure i governi regionali.
Per quanto riguarda il particolato atmosferico pm10, pensa che sia possibile raggiungere non i 35, ma i 7 giorni di superamento di emissione previsti dalla direttiva europea, anche se quella parte non è stata ancora recepita dagli stati membri?
Dobbiamo farlo per forza, dobbiamo lavorare in questa direzione. Ci sono alcune zone del paese che, anche per questioni geografiche, raggiungono i 150, i 200 giorni di superamento di emissione di pm10, si veda la pianura padana, si veda la città di Torino. Quel numero, il numero dei giorni di sforamento, ormai sembra quasi scontato che debba essere disatteso, e che si debba andare sopra i 35 giorni all’anno. Dietro a quel numero, invece, ci sono delle analisi scientifiche e epidemiologiche che raccontano di come l’esposizione eccessiva alle polveri sottili può portare le persone a morire. Perciò, o questo paese comprende la necessità di mettere in campo una serie di azioni per ridurre l’inquinamento atmosferico da mobilità, quello industriale, quello da riscaldamento domestico (soprattutto nel centro nord), oppure saremo costretti nei prossimi anni a contare sempre di più le morti causate anche dall’inquinamento atmosferico, che tra l’altro, come fanno emergere studi epidemiologici a livello nazionale, poi riferiti anche a livello internazionale, costano al paese, per esempio in termini di spese sanitarie, soldi che non vengono contabilizzati nelle questioni ambientali ma che poi ci ritroviamo nelle liste di spesa della sanità. Quindi non si tratta di un numeretto che l’Europa ha stabilito tanto per, ma di un rischio sanitario che essere esposti a quel livello di inquinamento comporta.