Londra 2012, il mostro è arrivato sulle rive del Tamigi. I giochi sono sfatti? - L'inchiesta del Venerdì di Repubblica
Costi che crescono a vista d’occhio, opere poi inutilizzate. l’evento sportivo perde colpi, malato di gigantismo. Dopo il no di Monti, intervista a un sociologo inglese che ha fatto due conti... - da Il Venerdì di Repubblica del 9.03.2012
12 March, 2012
di ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA. «Mario Monti ha fatto bene a cancellare la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020, perché i Giochi sono diventati una corsa al gigantismo i cui danni superano spesso i possibili benefici». È il parere di Gavin Poynter, docente di Scienze sociali alla East London University e autore di Olympic cities: 2012 and the Remaking of London (Città olimpiche: il 2012 e il rinnovamento di Londra), un libro inchiesta che riesamina, dati alla mano, il quadriennale appuntamento con lo sport a cinque cerchi. Forse nessuno ha studiato in profondità il problema meglio di lui: «I Giochi olimpici andrebbero ripensati, ormai sono una corsa all’affermazione dell’identità di un Paese, un business che dovrebbe sempre rigenerare la città ospitante, ma che raramente riesce a mantenere le sue promesse» afferma il professor Poynter in questa intervista.
Nel libro, lei parla di quattro fasi di- stinte nella storia delle Olimpiadi, sostenendo che l’ultima ha modificato lo spirito originale.
«I Giochi moderni sono cominciati ad Atene nel 1896. La prima fase dura fino al 1968, ci sono poche cifre a disposizione, ma era un fenomeno ancora relativamente primitivo: basti pensare alle Olimpiadi di Londra del 1948, che furono un successo pur venendo subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in una città an- cora vittima di una severa austerità e delle ferite del conflitto. Nella seconda fase, 1968-1983, i Giochi iniziano a diventare fonte di guadagno, attraverso i diritti televisivi e le prime sponsorizzazioni. La terza, dalle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 fi- no al 1991, vede crescere lo sfruttamento commerciale».
E poi, che accade?
«Poi, dai Giochi di Barcellona del 1992, si apre quella che definisco la quarta fase, in cui le Olimpiadi diventano un vero e proprio business, coinvolgendo enormi fondi pubblici, ma pure colossali finanziamenti privati, suscitando aspettative di benefici a lungo termine che di rado vengono realizzati».
Cosa contraddistingue queste cinque Olimpiadi più recenti, Barcellona, Atlanta, Atene, Sidney e Pechino?
«La tendenza al gigantismo. La corsa a vincere l’assegnazione dei Giochi come se si trattasse di un primato nazionale da ottenere a ogni costo. E il fatto che le spese finali risultano sempre più alte del budget previsto».
Eppure i Giochi di Barcellona vengono ricordati come un successo e un modello da imitare.
«Sì, ma per una serie di coincidenze fortunate e forse irripetibili. Nei primi an- ni Novanta, la Spagna aveva aperto la pro- pria economia al mercato comune europeo. Barcellona era diventata un quartier generale per la finanza e l’economia dei servizi. E proprio in quel periodo prese quota il turismo in Catalogna».
I budget dei Giochi risultano più alti anche per via della corruzione? La morale del suo libro è che i soldi spesi per i Giochi potrebbero essere spesi meglio in altri modi, se si vuole davvero fare rinascere una città.
«Il punto è che risulta difficile combinare l’organizzazione di un megaevento sportivo con un progetto di rigenerazione urbana. Le esigenze della preparazione dei Giochi non coincidono necessariamente con quelle di una pianificazione urbana a lungo termine. L’accelerazione dello sviluppo economico è positiva di per sé, ma può non essere la risposta migliore a un problema locale. Lasciare uno stadio o un parco a un quartiere non è sempre il metodo migliore per risanarlo».
Allora il premier italiano Mario Monti ha fatto bene, secondo lei, a ritirare la candidatura di Roma per i Giochi 2020?
«Più crescono budget, sponsorizzazioni e iniziative per rigenerare il territorio, più aumenta la tentazione della corruzione. Ma bisogna ammettere che in questo campo le riforme lanciate dal Comitato olimpico internazionale, a partire dalla fine degli anni Novanta, stanno dando buoni risultati».
Gli investimenti per i prossimi Giochi di Londra vengono giustificati con un vasto progetto di rigenerazione dell’East End, la parte più degradata della città. Le pare un tentativo riuscito?
«Solo in parte. L’East End sarà meglio collegato al resto della metropoli grazie a un miglioramento delle infrastrutture dei trasporti. Ma non credo che ci saranno reali benefici per le comunità più povere e disagiate. I nuovi alloggi costruiti per il Villaggio olimpico non saranno che in minima misura accessibili a prezzi “popolari”. La creazione di posti di lavoro permanenti riproduce una suddivisione in manodopera altamente qualificata e lavori a bassa paga che esiste anche altrove. Il rischio è che sarà l’ennesima opera di gentrificazione, con i quartieri rimessi a nuovo che verranno occupati dalla classe media in arrivo da altre zone e le classi meno privilegiate costrette a spostarsi altrove, an- cora più lontano dal centro».
«Sì, perché il gigantismo delle Olimpiadi non diminuirà. Ospitare i Giochi comporta un grosso impegno pubblico, che può diventare un peso esorbitante per la città e la nazione che li hanno voluti, come è accaduto ad Atene e alla Grecia. Con ciò non voglio dire che Roma non meriterebbe di ospitare le Olimpiadi. Ma bisogna valutare bene come sviluppare l’economia e le infrastrutture, in particolare in un periodo di austerità».
Ci sarebbe un altro modo di organizzare le Olimpiadi?
«Io credo che i Giochi dovrebbero essere ripensati, sia dal Comitato olimpico internazionale che dalle città candidate a ospitarli. Ciò non significa ridurre la portata dell’avvenimento, ma bisognerebbe riesaminare cos’erano in passato i Giochi e come e perché sono cambiati. Non è realistico aspettarsi che le Olimpiadi facciano rinascere una città o segnino una svolta nella vita di una nazione, eppure questa è la formula che ormai è stata adottata: Pechino doveva annunciare il secolo cinese, Londra sottolineare che la Gran Bretagna resta comunque grande e speciale, e lo stesso sarà a Rio de Janeiro fra quattro anni, quando ci sentiremo dire che i Giochi segnano l’ingresso del Brasile nella globalizzazione e nel benessere. Ma c’è davvero bisogno delle Olimpiadi per ripulire le favelas?»