Sul fronte del clima tira una brutta aria
La conferenza di Buenos Aires si chiude con un deludente compromesso. Il Protocollo di Kyoto entra in vigore senza gli Stati uniti. I paesi «emergenti» mettono per iscritto che non discuteranno tagli alle emissioni dei gas di serra - più altri articoli da Il Manifesto del 19.12.2004
22 December, 2004
PAOLA DESAI Un compromesso dell'ultimo minuto, raggiunto sabato mattina quando già gli addetti avevano cominciato a smantellare stand e padiglioni, ha concluso a Buenos Aires la decima conferenza dei quasi 200 paesi che aderiscono alla Convenzione sul clima. Un compromesso deludente. E dire che la «Cop 10», evento di routine (si tiene ogni anno), era cominciata in modo celebratorio: sia perché segnava il decimo anniversario della Convenzione stessa, firmata nel 1994; sia, soprattutto, perché un mese fa la Russia ha ratificato il Protocollo di Kyoto, il primo trattato internazionale che obbliga una trentina di paesi industrializzati a tagliare le proprie emissioni di anidride carbonica e altri gas prodotti dai sistemi energetici, motori e industrie, responsabili del riscaldamento dell'atmosfera terrestre. Con la ratifica russa il protocollo di Kyoto diventa legge: entra in vigore il 16 febbraio 2005, tra meno di due mesi. Quella di Buenos Aires doveva essere dunque la prima conferenza del «dopo Kyoto», quella che cominciava a delineare come andare oltre. Così non è stato: prima uno scontro transatlantico, poi uno scontro Nord-Sud e tra paesi produttori di petrolio e non, hanno impedito ogni decisione significativa. L'Unione europea si era presentata a Buenos Aires decisa a discutere della «fase due». Kyoto obbliga a tagliare le emissioni di sei gas di serra del 5,2% in media rispetto al 1990 entro il periodo 2008-2012 (l'obiettivo è ripartito in modo diseguale tra i diversi gruppi di paesi): ben poca cosa rispetto ai segnali allarmanti che continuano a lanciare i climatologi. L'Europa dunque chiedeva di cominciare a discutere del dopo 2012, e di fissare tagli delle emissioni ben più drastici. La delegazione europea, guidata dal ministro dell'ambiente olandese Pieter van Geel (è la presidenza di turno del'Unione), aveva anche l'ambizione di riportare gli Stati uniti nel negoziato. Washington ha però chiarito subito che mantiene la decisione di non ratificare Kyoto, presa nel 2001: e infatti quel trattato entra in vigore senza la nazione che da sola produce oltre un quarto delle emissioni globali di anidride carbonica. Non solo: la capo della delegazione Usa, signora Paula Dobrianski, ha subito detto che è «prematuro» parlare di dopo Kyoto. Si è invece dilungata sui progetti di investimenti tecnologici della sua amministrazione. Buona parte della confenza di Buenos Aires è stata dunque spesa a conciliare le due sponde dell'Atlantico. Finché l'Argentina (che ha presieduto la conferenza) e l'Unione europea hanno proposto un compromesso: tenere nel prossimo anno un seminario, presso la sede della Convenzione sul clima a Bonn, per uno «scambio informale» su come affrontare il cambiamento del clima. Gli europei volevano più seminari, esplicitamente sul dopo Kyoto: ora commentano che aver portato Washington almeno a sedersi a un prossimo tavolo di confronto è già qualcosa. Con buona pace della Gran Bretagna, il cui premier Tony Blair ha promesso che il clima sarà la sua priorità quando a gennaio assume la presidenza del G8, e che cercherà di «ammansire» George Bush. Sul compromesso transatlantico sono però insorti i «paesi emergenti», termine che indica nazioni come Cina, India, Brasile: grandi, popolosi e «in via di sviluppo» ma con economie in crescita veloce. Kyoto non fissa alcun obbligo per questi e tutti gli altri paesi in via di sviluppo: ridurre i consumi energetici spetta per ora ai paesi industrializzati, che negli ultimi due secoli «si sono sviluppati usando gratis una proprietà comune globale», per usare le parole del presidente argentino Nestor Carlos Kirchner. E' chiaro però che nel futuro anche paesi «emergenti» dovranno fare i conti con l'uso dei combustibili fossili e le emissioni che producono. Cosa da un lato riconosciuta: tanto che alla Cop-10 di Buenos Aires la Cina e il Brasile hanno presentato i rispettivi Piani nazionali per il clima (come ogni paese è tenuto a fare). Ma quando si parla di limiti obbligatori il discorso cambia: «Non siamo disposti a discutere riduzioni nelle emissioni», ha chiarito il capo della delegazione brasiliana, Everton Vieira Vargas. Dunque una pattuglia composta da India, Cina, Pakistan e Arabia Saudita ha ottenuto che fosse messo per iscritto che il seminario informale di Bonn sarà condotto «senza pregiudizio per ogni futuro negoziato», cioè non porterà a imporre limiti alle emissioni di gas di serra nelle nazioni in via di sviluppo. Sarebbe sbagliato però parlare di un «fronte» del Sud: perché il «G77 più Cina», che per convenzione alle Nazioni unite raggruppa i paesi in via di sviluppo, è spaccato almeno in tre, a seconda di cosa è in ballo. I piccoli paesi, soprattutto le piccole nazioni insulari e costiere e in genere quelli che soffrono più direttamente l'impatto del clima che cambia, non condividono la posizione di Cina o India: piuttosto hanno sostenuto lo sforzo europeo di andare oltre Kyoto al più presto. D'altra parte sia gli «emergenti» che i «piccoli» si sono trovati contro i paesi produttori di petrolio, guidati dall'Arabia saudita: loro vedono l'intero impianto di Kyoto come un attentato ai loro interessi (cioè vendere petrolio). Così la pattuglia Opec ha ostacolato in ogni modo il tentativo di approvare un pacchetto di aiuti per promuovere tecnologie pulite nei paesi in via di sviluppo - che i non produttori invece sono felicissimi di ricevere. Un modo per fare ostruzionismo è stato mettere in discussione «risarcimenti» per il mancato guadagno che verrà dalla riduzione dei consumi di petrolio: non è una cosa seria, anche perché i consumi di petrolio continuano a salire, ma intanto complica i negoziati. Alla fine la conferenza ha aprpovato un pacchetto di misure per aiutare i paesi ad «adattarsi e mitigare gli effetti» del cambiamento del clima - che del resto era l'unica cosa al suo ordine del giorno: nessuno si è premurato di dare dettagli, probabilmente nascosti nei verbali. Ha anche deciso di rafforzare il comitato che tratta di «meccanismi di sviluppo pulito», e quelli per il commercio di emissioni: è la «finanza creativa» del clima. Usa, il federalismo che si respira Ormai 30 stati americani hanno adottato politiche per tagliare i gas MA.FO. Quali Stati uniti d'America? Presi nel loro insieme, gli Usa sono la nazione che produce da sola un quarto delle emissioni mondiali di gas «di serra», quelli che alterano il clima del pianeta, ma rifiuta di ratificare il trattato di Kyoto con la scusa che sarebbe un pregiudizio alla sua economia. Presi uno per uno però gli stati Usa offrono un panorama ben diverso - e la cosa non è sfuggita a molti osservatori alla conferenza sul clima conclusa a Buenos Aires. Steve Sawyer, di Greenpeace international, ha commentato: inutile perdere tempo per riportare l'amministrazione Bush nei negoziati, «meglio impegnarsi con la California e gli altri stati e perfino le aziende private». Già, la California: è spesso citata come lo stato con una legislazione ambientale all'avanguardia. Per ciò che riguarda le emissioni di gas di serra, in particolare, lo stato governato da Arnold Schwarzenegger in giugno ha approvato una legge che obbligherà i fabbricanti d'auto a tagliare le emissioni di anidride carbonica dei veicoli messi in circolazione del 30% entro il 2015 (dunque i modelli messi in commercio dal 2009 dovranno cominciare ad avere emissioni ridotte): poiché non c'è modo di «intrappolare» la CO2 prodotta come gas di scarico, l'unico modo di ridurla è bruciare meno carburante, cioè disegnare motori che consumino meno benzina per chilometro. Se sopravviverà al ricorso legale intentato dalle industrie automobilistiche, la legge californiana è già pronta a essere replicata nel New England e altri stati americani. La California non è unica. Ormai, una trentina di stati americani (su 50) ha preso qualche iniziativa per limitare le emissioni di gas. Iniziative molto diverse tra loro: a volte legislazioni (di solito votate a sostegno «bipartisan»): ad esempio 18 stati ormai hanno deciso per legge che una certa parte della loro elettricità va prodotta con fonti rinnovabili (perfino il petrolifero Texas ha cominciato a incentivare quella eolica). A volte sono «piani d'azione» integrati: come quello della città di San Francisco - ancora la California! - che ha varato un piano per ridurre le emissioni della città per attenersi all'obiettivo di Kyoto: è imperniato su un mix di carburanti alternativi e veicoli ibridi diesel-elettrici, pannelli solari sugli edifici pubblici e standard di efficenza energetica per le nuove case. Poi ci sono le cause legali: la più notevole è quella annunciata dalla città di New York e otto stati (California, Connecticut, Iowa, New Jersey, New York, Rhode island, Vermont e Wisconsin), che citano in tribunale 5 grandi aziende produttrici di energia accusate di non fare il necessario per ridurre le emissioni di anidride carbonica: sono le maggiori produtrici di elettricità negli Usa, e fanno da sole il 10% delle emissioni nazionali. La cosa interessante è che i querelanti elencano i danni prodotti dal cambiamento del clima ma non chiedono risarcimenti (che andrebbero quantificati) bensi «tagli sostanziosi» delle emissioni «che pongono una grave minaccia alla nostra salute, la nostra economia e il nostro ambiente». Il risultato di questo insieme di iniziative è frammentario, certo: ma va in una direzione precisa. Il democratico Dennis Kucinich, deputato dell'Ohio, commentaa: «Il nostro governo federale finirà per rendersi irrilevante circa la politica del clima». La «strategia» del danno di Matteoli «Abbiamo fatto un altro passo, anche se piccolo, sulla strada della lotta ai cambiamenti climatici»: cosi si è espresso il ministro dell'ambiente Altero Matteoli sulle conclusioni della conferenza mondiale sul clima di Buenos Aires. Ma è proprio contro la posizione filoamericana del ministro italiano che si scagliano gli ambientalisti. «È inconcepibile - dice il leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio - che un ministro dell'ambiente lavori sistematicamente contro un accordo internazionale per la salvaguardia del pianeta, prostrandosi agli interessi delle compagnie petrolifere, che non corrispondono certo a quelli dei cittadini. «Alla conferenza di Buenos Aires - rincara la dose il deputato della Margherita, Ermete Realacci - si è raggiunto «un compromesso al ribasso e l'Italia ha scelto una strategia dannosa e perdente». L'ecologia creativa, l'unica invenzione del declino italiano G. RA. La prospettiva di modifiche climatiche estreme per via del riscaldamento dovuto all'emissione di gas di serra e il pericolo di una conseguente rottura irreversibile della natura - irreversibile per le attuali condizioni di vita del genere umano, visto che la Terra continuerà imperterrita a esistere- sono nell'ordine delle cose. Ma a Buenos Aires si è solo sfiorato questo argomento troppo complicato; qualcuno si è limitato a fare affari, a comprare e vendere emissioni. La finanziarizzazione dell'ambiente, con la sua variante dell'ecologia creativa è un'attività nella quale noi italiani siamo considerati maestri. Sotto l'egida della Banca mondiale esistono quattro fondi d'investimento che trattano «crediti ambientali» e tre vedono prevalenti capitali italiani; anzi, uno di essi - come si legge in un ampio studio di Legambiente («l'Italia alla prova di Kyoto») - ha il bene augurante nome di Italian Carbon Fund. Alla base del movimento ambiental-finanziario vi sono due elementi di buon senso. Il primo è che l'aria che ci sovrasta non è divisa a spicchi e le conseguenze sempre più frequenti in termini di aumento della temperatura, variazione delle correnti marine, scioglimento dei ghiacci, inondazioni, cicloni riguardano più o meno tutti gli umani. Di conseguenza, una riduzione nell'emissione di anidride carbonica (co2), di gran lunga il maggiore degli inquinanti, ovunque conseguita, sarebbe un sollievo per tutto il pianeta (genere umano). L'altro elemento è che alcuni inquinano e hanno inquinato molti meno di altri e quindi hanno più meriti, ciò che si traduce in più diritti a inquinare a loro volta. Ne esce un «aspetto innovativo ... (che) consiste nell'assegnare un valore monetario all'atmosfera, ben condiviso da tutto il pianeta, creando un mercato del carbonio...». Se l'atmosfera ha un valore monetario, si può venderne e comprarne; i finanzieri-ecologisti spiegano se e quando in termini di futuri profitti, conviene puntare sul risparmio di co2, o sostituendo carbone e petrolio con energie non inquinanti. Oppure conviene comprare diritti a inquinare alla borsa apposita. La scelta italiana va in questo senso; ma lì scatta anche l'ecologia creativa quando nel piano governativo per le emissioni future, a grandi gruppi energetici come l'Enel arrivino i diritti a inquinare con le centrali a carbone, e gliene arrivino in eccesso, in modo che Enel e altri gruppi possano presentarsi sul mercato e venderne, guadagnando tanto come inquinatori che come non inquinatori.