Perché in Italia chi cammina si sente solo un ingombro | Speciale Repubblica
Pedonalizzarne una parte, piccola o grande che sia, dipende dall’idea che si ha di una città...- da La Repubblica del 08.08.2013
08 August, 2013
Pedoni
Francesco Merlo
Il paradiso italiano del pedone è Capri, il suo inferno è Taormina. La prima si è completamente liberata e ha persino migliorato l'antropologia del pedone obbligandolo al decoro, la seconda ha invece pedonalizzato solo il Corso trasformandosi in una cittàgioiello assediata ma imprendibile. Ebbene, Taormina è la pedonalizzazione all'italiana, la mezza chiusura che è la mezza porzione della mezza calzetta: metà di via del Corso; piazza Duomo sì, San Babila no; via dei Cerretani ma sino alle 19; solo 500 metri dei Fori per la passeggiata ai Forini, e così via in tutti i capoluoghi. Poi ci sono deroghe e permessi che sono altre pulsioni italiane. E, su tutto, l'idea degli intoccabili snodi strategici, dove la strategia è quella ossimorica di andare in macchina a passeggiare a piedi. Ma il centro quasi chiuso è come la famosa donna quasi incinta, la quasità come destino dell'Italia, quasi potenza, quasi industriale, quasi bella, quasi moderna, quasi vincente come il Pd. E dunque, come il famoso “quasi gol” di Nicolò Carosio, c'è anche il “quasi pedone”. E invece il pedone, che si perde e si ritrova nel colore di un mattone o di una soglia, sacerdote delle
petites rues che abita come una casa, detective della strada raffinata o capricciosa o morbosa, il flaneur, insomma è l’utopia necessaria e urgente delle estenuate città storiche in cerca di un nuovo Rinascimento: «Io prendo Venezia a timone», diceva Le Corbusier che già sognava di separare macchine e pedoni. Come l’Umanesimo, creando spazi e pavimenti e piazze, portò fuori dalle anguste vie tortuose dei secoli bui Firenze, Anversa e le città anseatiche, Norimberga, Siviglia...e, nel piccolo, Pienza e Montepulciano, così oggi solo le metropoli che liberano i luoghi della storia dal nuovo Medioevo delle macchine possono vincere la scommessa con la sopravvivenza.
E infatti si passeggia in centro a Copenaghen e a Zagabria, ad Amsterdam e a Praga, a Colonia e in tutte le città tedesche. E, con tanti se e tanti ma, anche a Bologna, Torino, Napoli, Bari e Catania. Ci sono poi capitali in Europa, come Parigi e Londra, dove, pur mantenendo ma governando le auto, la passeggiata in centro è l'antidoto alla strada apoca-littica del crack e allo spostamento verso le banlieues. I lungofiume sono eleganti sentieri di libertà. E il pedone si rifugia nei luoghi storici come nelle tane lidrie beratorie della civiltà assediata dalla dannazione delle discariche di rottami e di umanità.
Solo a Roma, come forse a Mumbai, il povero pedone capisce subito di essere un ingombro. E, attorno a Piazza Navona o Campo de’ fiori, o verso il ponte Sant’Angelo, o lungo la via del Governo Vecchio, o nell'area di via di Campo Marzio, diventa subito il bersaglio mobile dentro un reticolo di salsicce di macchine, rancidi insaccati di lamiera mista dove non si respira solo la mala aria fritta delle peggiori mangiatoie, ma anche fumi, gas, esalazioni, vapori e smog d’auto che sporcano gli ambienti e i corpi, offuscano le menti e distruggono la verità.
Roma ha espulso il flaneur.
Roma odia il pedone che, come Benjamin, il suo massimo cantore, spiegherebbe volentieri al sindaco ciclista Ignazio Marino, non è il turista del Colosseo con i calzoni corti a sbrendolo e le infradito che inquinano il decoro quanto il motore a scoppio inquina i polmoni: «Le grandi reminiscenze, i brividi storici per il flaneur sono una miseria che egli lascia volentieri al viaggiatore». Il pedone è il passante abituale, è don Abbondio che «tornava bel bello dalla passeggiata verso casa». Il pedone è Manzoni a passeggio per Milano con Vincenzo Cuoco: «Adescati dalla dolcezza dei colloqui, il Cuoco si fermava lungamente alla porta di lui, ed esso lo riaccompagnava a casa sua, e il Cuoco daccapo gli teneva dietro per riaccompagnarlo a sua volta». Il pedone è Kant che voleva «respirare solo con le narici e criticare, passeggiando solitario, la ragion pura». Il pedone è la filosofia dei peripatetici greci, il pedone è la civiltà occidentale..
E invece a Roma il pedone, incespicando nei sampietrini, affronta armenti di scooter che gli tolgono il respiro e viene cacciato via come una mosca da manipoli di auto che si fanno largo in strettissimi “non luoghi a procedere”. E quando il Suv parte sgommando dal vicolo della Moretta, dove c’è spazio per uno solo - o l’auto o Kant - il pedone si paralizza e dunque gli sfugge il ragazzino che impenna la moto e gli sfiora il sedere. Cercando allora, non il marciapiedi che in via del Pellegrino non c’è, ma una parete per appiattirsi, sbatte contro la Smart in sosta con il motore acceso perché qualcuno dentro telefona e si gode l'aria condizionata. E parte pure il rimprovero: «Che, sei cecato?».
Ci sono infatti l’isteria, lo strepito e l’ira degli automobilisti che trasformano il più grande e tortuoso centrocittà del mondo in un camminamento di guerra, peggio della lunga marcia di Mao. Nella già stretta via dei Filippini, che non ha marciapiedi ed è occupata dalla sosta selvaggia, si avanza come nel rugby, con la testa all’indietro, per controllare le macchine che ti superano a filo.
Bisogna avere il coraggio di dirlo: a Roma le persone civili non girano in auto. Solo i mostri di Dino Risi ingombrano con le loro jeep la via di Grotta Pinta dove il pedone può arrivare da piazza del Biscione attraverso un impasse che è il nome che Voltaire diede a tutti i cul-de-sac del mondo: «Chiamo impasse quel che voi chiamate cul-de-sac. Trovo che una strada non somiglia né a un culo né a un sacco». E invece il passetto del Biscione è un sacco buio che esala l’asprezza acida degli escrementi. Sono ragionevolmente fiducioso che il sindaco Marino capisca bene che la pedonalizzazione è anche decoro (non decorazione). Non il festival della panchina e del lampione strampalato ma nettezza urbana e multe, un unico disegno per tutti i chioschi, una legge per obbligare (e aiutare) i proprietari a rifare le facciate, le bancarelle trasformate in strutture minimali invisibili, l’espulsione della patacca kitsch da luoghi come piazza Navona. Non si può certo liberare il Colosseo dalle macchine per ingombrarlo ancora di più con i famigerati camioncini che “spacciano” porchetta acida e zucchero frollato.
Non c’è rinascita possibile di Roma che non cominci con la liberazione e con il riscatto del pedone, del nostro
flaneur. Ma l'utopia del pedone obbliga a uscire dal tracciato dei mezzi Fori, a sconfinare e, chissà, magari salvare Roma così, per miracolo, come capitò agli ebrei che - a piedi sfidarono le acque del mar Rosso.
Così la città è di tutti
Francesco Erbani
Pedonalizzarne una parte, piccola o grande che sia, dipende dall’idea che si ha di una città. Intorno a questo perno gira il ragionamento di Pier Luigi Cervellati, l’urbanista che da assessore tentò uno dei primi esperimenti italiani di chiusura alle auto di una piazza o di una via. Bologna, 1967. «Piazza Maggiore era un garage e nonostante circolassero molte meno macchine di oggi, il cuore della città
era un ammasso frenetico di lamiere».
E lei che cosa fece?
«Proposi di eliminare le auto. Contemporaneamente ci si provò anche a Siena, in piazza del Duomo».
E riusciste nell’intento?
«Non fu semplice. Ebbi contro non solo i commercianti. Qualcuno mi derideva: avevo competenze sul traffico, ma non possedevo né patente né macchina. A casa mia arrivarono due modellini di bara. Era agosto. Quando poi i bolognesi tornarono dalle vacanze, molti di loro ebbero l’impressione che un luogo della città fosse restituito a un uso pubblico. Ma poi quell’esperimento rimase isolato».
Si proseguì negli anni successivi in altre città, da Brescia a Roma. A fasi alterne. Ma quale significato ha, dal punto di vista urbanistico, una pedonalizzazione?
«Vuol dire, appunto, riportare una dimensione pubblica nella città. Le macchine privatizzano. Una piazza consegnata
ai pedoni è accessibile a tutti, favorisce la mescolanza, lo scambio, è uno spazio per la convivenza».
Leonardo Benevolo sostiene che le macchine sono strutturalmente incompatibili con un centro storico. Lei è d’accordo?
«Sì. In Italia la macchina è il simbolo della degradazione di un centro storico a luogo per le attività direzionali, burocratiche e commerciali. Cosa che un centro storico non dev’essere, pena il suo degrado. Le abitazioni attraggono meno macchine degli uffici».
Ma bisogna pedonalizzare solo nei centri storici?
«No. In fondo sbagliamo a parlare di centro storico, dobbiamo usare l’espressione città storica. Di qui discende l’idea che la pedonalizzazione corrisponde al progetto complessivo che si ha per l’intero organismo urbano. È essenziale restituire dimensione pubblica anche alle periferie e alle aree delle nuove espansioni, per evitare che lo spazio che serve a fare comunità sia un centro commerciale».
Quindi pedonalizzare non serve solo a immaginare una mobilità diversa, ad abbattere l’inquinamento...
«Esattamente. Io plaudo all’iniziativa di Ignazio Marino di togliere intanto le auto private intorno al Colosseo. È un passo nella direzione di evitare l’oscenità dell’Anfiteatro Flavio ridotto a “paracarro”, come diceva Antonio Cederna. Ma non c’è solo un’esigenza sacrosanta di conservazione. Quell’area, quando sarà senza auto, diventerà un sublime spazio pubblico ».
Lei citava le resistenze incontrate. Per evitare fenomeni di rigetto occorre procedere su più piani, per esempio incrementando autobus, tram, metropolitane. Non è d’accordo?
«In qualunque altra città europea le pedonalizzazioni avanzano speditamente perché il trasporto pubblico è efficiente ed è preferito alla macchina. Da noi questo non avviene per cause che risalgono almeno al modo in cui si sviluppano le città nel secondo dopoguerra. Ma le pedonalizzazioni, sia quelle che si possono realizzare più a breve termine, sia quelle più a lungo termine, fanno parte, come il potenziamento di tram e metropolitane, dello stesso ordine di misure volte a restituire dimensione pubblica alla città».
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