Dal falso mito della scorta inesauribile di carne a buon mercato al land grabbing, ma a guadagnarci sono solo poche aziende a discapito dell’ambiente, e allora? Basta carne?
Intervista a Katy Keiffer autrice del libro ‘Basta carne?’ (edito in Italia da Edt) sui veri costi ambientali della produzione industrializzata della carne, fenomeno che negli ultimi decenni ha conosciuto una crescita imprevedibile e, per certi versi, incontrollata
28 February, 2018
Basta carne?, di Katy Keiffer (edito in Italia da Edt) è un’indagine sui veri costi della produzione industrializzata della carne, fenomeno che negli ultimi decenni ha conosciuto una crescita imprevedibile e, per certi versi, incontrollata. Fulcro di tutta l’indagine è la zootecnica moderna, per la precisione i CAFO (Concentrated Animal Feeding Operation), luoghi dove grandi quantità di animali vengono ammassati in spazi ristretti per permettere alle grandi industrie dell’allevamento di massimizzare i profitti, così da ridurre drasticamente i costi della carne per i consumatori rendendo “diffusa la convinzione che quella scorta pressoché inesauribile di carne a buon mercato sia scontata”. Luoghi dove il lavoro viene sfruttato e la genetica piegata alla produzione quasi incontrollata della carne, il tutto a discapito dell’ambiente e delle condizioni di vita degli animali.
Abbiamo incontrato Katy Keiffer alla terza edizione del Festival del Giornalismo Alimentare, che si è svolto ha Torino dal 22 al 24 febbraio, e con lei analizzato le storture che i CAFO stanno producendo sia a livello globale che locale, suggerendo qualche accorgimento che i consumatori possono attuare per limitare e mitigare i danni di questa frenetica e dannosa produzione di carne.
Perché proprio la carne?
Inanzi tutto voglio precisare che sono carnivora, anche io magio la carne. Da dieci anni conduco un programma radiofonico che si occupa dell'argomento e in virtù di questo mi è stato commissionato un libro proprio su l’argomento. L’industria della carne negli ultimi anni ha subito una grande evoluzione, ma allo stato attuale non può andare lontano. Attualmente l’industria della carne statunitense sta spostando la sua attenzione in aree geografiche, come l’Asia, dove il consumo della carne non è così elevato quanto negli Stati Uniti dove si consuma carne tre volte al giorno, con un consumo pro capite annuo di circa 250 kg. E se da questo conto eliminiamo tutti i vegetariani e i vegani il consumo aumenta fino a 300 kg. Una quantità spropositata e dannosa per la salute.
In pratica i grandi produttori di carne come Cargill, Tyson o la brasiliana Jbs si stanno aprendo ai mercati asiatici, in particolare a quello indiano, dove tradizionalmente si mangia pollame.
Il mercato sta cambiando, adesso il pollo è diventata la carne di maggior consumo degli Stati Uniti. È come se ci fosse un appiattimento del gusto verso il pollame e quindi le aziende cercano di impattare sul gusto delle popolazioni asiatiche introducendo in quei territori il consumo di carni rosse.
Quindi i colossi della carne si stanno aprendo a nuovi mercati, ma nel farlo stanno modificando anche i mezzi e le modalità di produzione?
Personalmente non vedo nessun cambio, ma vedo una esportazione all’estero degli stessi mezzi di produzione. Poi c’è il fenomeno di land grabbing, l’accaparramento di territori fuori dai confini nazionali per produrre per esempio foraggio grano o soia, come stanno facendo le aziende cinesi in Africa, per alimentare i propri capi. Un fenomeno che impatta negativamente sulle popolazioni locali e depaupera le risorse naturali. Un altro esempio arriva dall’Arabia Saudita dove le grandi compagnie hanno spostato in zone degli Stati Uniti, precisamente nel sud della California, la produzione di foraggio per alimentare i loro bovini da latte.
Un altro problema è quello dell’impatto sulle comunità rurali, come da tempo accade negli Stati Uniti. In pratica si sta implementando il metodo chiamato ‘integrazione verticale’: una grande azienda si appropria dell’intera filiera così da eliminare completamente la competizione e la concorrenza. Di conseguenza i singoli allevatori e coltivatori si ritrovano alle mercé di una sola grande azienda e non hanno più voce in capitolo sia sulle produzioni e sia sui prezzi, trovandosi costretti a rifornirsi dalla stessa azienda e vendere i propri prodotti sempre allo stesso soggetto. Di fatto queste grandi aziende hanno creato un monopolio nella filiera danneggiando le comunità rurali.
Ma quali sono i principali rischi ambientali prodotti dai CAFO?
Quando si concentrano nella stessa area un numero significativamente grande di animali, non si può parlare più di una fattoria ma di una vera e propria industria con metodi di produzione industriali. Ma per la legge (quella degli Stati Uniti, ndr) sono la stessa cosa e quindi, come invece avviene per esempio in una industria manifatturiera, non ci sono regole e norme adeguate per mitigare le emissioni e l’impatto ambientare di questo tipo di insediamenti industriali.
Proviamo ad immagina cosa possono produrre 50 mila suini radunati in una unica struttura. Solo a livello di gas produrranno una miriade di composti volatili come metano, ammoniaca, anidride solforica, nonostante una produzione di gas davvero importante queste aziende non devono rispettare nessuna normativa e nessun limite di emissione. Se invece pensiamo alla produzione di escrementi di un allevamento di suini di queste proporzioni, nei quali ogni animale produce dai 7 ai 14 kg di escrementi al giorno, si crea una vera e propria “laguna di merda”che non viene smaltita con tecniche particolari per ridurne l’impatto ambientale, ma di fatto dispersa alla buona, specialmente in fiumi e canali. Alcune aziende stanno cercando di recuperare energeticamente questi liquami con la produzione di biogas, ma si tratta di piccoli esperimenti e molto costosi per le enormi realtà degli States.
Allevamenti industriali di questi tipo impattano anche negativamente sulle risorse idriche ma non solo. Un luogo davvero significativo dell’impatto ambientale di questi processi industriali, è quello che accade in una parte del Golfo del Messico. Esiste un’area grande 5 mila miglia quadrate (circa 13 mila kmq), grande quanto lo Stato del Connecticut, di acque totalmente morte perché prive di ossigeno, acque nelle quali sono state riversate tante di quelle sostanze inquinanti come fertilizzanti e liquami animali che le hanno private completamente di vita.
Senza dimenticare l’impatto sul suolo con i fertilizzanti per la coltivazione del grano e della soia che rilasciano di azoto e fosfati. Conosciamo tutti il temine di ‘miracolo agricolo’, ossia la crescita esponenziale delle colture grazie ai fertilizzanti. Una crescita non di qualità ma solo di quantità. Il tutto a svantaggio delle risorse idriche. Faccio un esempio di un caso in Iowa, che ho seguito per tre anni, dove l’acqua del fiume Raccoon odorava di marcio, Bastava passare nelle vicinanze del fiume per capire che qualcosa non andava, l’odore era forte e intenso, un misto tra esalazioni di sostanze chimiche e escrementi. A un certo punto un cittadino si è ribellato e ha intrapreso una azione legale per fermare gli sversamenti degli allevamenti a monte del fiume. Ma dopo le pressioni delle aziende e di alcuni politici locali il procedimento è stato stralciato finendo su di un binario morto e, cosa più assurda, le competenze sul controllo della qualità delle acque che fino al quel momento erano in capo alla municipalità sono state affidate ad una agenzia statale nuova di zecca, creata dallo Stato dell’Iowa e pensata a tavolino dalle lobby che rappresentano queste aziende. Un episodio che fa riflettere sul potere che hanno le aziende sui decisori politici.
Se la carne come la conosciamo oggi (negli Stati Uniti ma non solo, ndr) è la diretta ed esclusiva conseguenza di metodi di produzione volti alla massimizzazione del profitto, senza una minima tutela per l’ambiente e per gli animali, non ci resta che diventare vegetariani? Cosa può fare il consumatore per uscire da questo tipo di logiche di mercato?
Ai consumatori suggerisco di leggere le etichette, di non comprare la carne low cost e di diventare consapevoli di quello che comprano e dove lo comprano. C’è bisogno di educare il consumatore a informarsi meglio. Il libro è stato scritto proprio per questo motivo, perché il consumatore americano è troppo poco consapevole di quello che mette sulle proprie tavole, dell’origine del cibo che ha nel piatto. È necessaria una grande opera di educazione, così da mettere le persone nelle condizioni di chiedersi “chi sono i grandi attori della produzione di carne? Come viene prodotta?”. Si può contrastare tutto questo supportando i produttori locali, quelli ‘domestici’, così da evitare l’acquisto di quella carne che proviene da animali allevati a colpi di antibiotici. Interessandosi a quali protocolli di salute e benessere dell’animale vengono applicati dalle aziende, così da non far diventare il consumatore partecipe di questa modalità di produzione della carne e soprattutto far attenzione alla tracciabilità di tutta la filiera.
Chi è Katy Keiffer? Katy ha fatto la cuoca e poi per oltre vent’anni la macellaia. Oggi si occupa di giornalismo agroalimentare, collaborando con grandi nomi della cucina internazionale come Anthony Bourdain. Scrive per il «Food Art Magazine» – in particolar modo sul tema del consumo di carne – ed è la produttrice e conduttrice di “Quel che non ammazza – I segreti dell’industria del cibo”, trasmissione settimanale di The Heritage Radio Network.