Da Torino al Malawi con ViviBalon e Humana sulle tracce del riuso e del riutilizzo virtuosi
Questo è il racconto di un viaggio sulle tracce del riuso e del riutilizzo virtuosi, dai mercatini di Libero Scambio di Torino all'Africa, in particolare al Malawi
26 March, 2018
Alessandro Stillo Partiamo dall'inizio: l'Associazione ViviBalon gestisce le Aree di Libero Scambio a Torino, il sabato e la domenica, in due diverse aree: sono mercatini popolari, in cui ogni oggetto costa pochi euro, a volte meno, e in cui le fonti di approvvigionamento sono molte, ad esempio le cantine svuotate. In più gli espositori sono popolari come l'attività, portano le merci con carretti, biciclette, enormi borsoni, a piedi e con mezzi pubblici e per questo motivo alla chiusura dell'attività moltissimi lasciano cumuli di vestiti, scarpe, accessori usati invenduti sul posto. Qui nasce la partnership di ViviBalon con Humana People to People: da più di sei mesi al termine del mercato ViviBalon i venditori conferiscono gli abiti e gli accessori invenduti, aiutati dagli Ecomori di Eco dalle Città, ai cassonetti di Humana posizionati nelle due aree di Libero Scambio. Nei primi sei mesi sono state raccolte 20 tonnellate di abiti usati, unicamente nel mercato domenicale, dove sono ora posizionati 10 cassoni di raccolta, consegnati ad Humana che li ha selezionati prima in Italia, poi nel suo centro in Bulgaria: le destinazioni sono i negozi Humana, le donazioni di abiti in Malawi, il riciclo, tutte attività produttrici di fondi da investire nel paese africano. Da qui inizia il viaggio che ci condurrà in Malawi: ogni settimana Humana raccoglie gli abiti e li porta ai suoi centri di smistamento dove vengono selezionati per qualità e tipi, prendendo diverse destinazioni. Una piccola parte finisce a smaltimento nei termovalorizzatori, una parte direttamente in vendita nei negozi del network internazionale di Humana sparsi in Italia, in Europa Orientale e in Africa, una parte viene avviato al riciclo delle fibre: già queste operazioni di selezione hanno risvolti interessanti e da tenere in considerazione da parte di chi ha a cuore la salvaguardia dell'ambiente. Ad esempio il riciclo: oggi la quota di riciclo nella raccolta di abiti usati tende a scendere per motivi oggettivi, banalmente perchè gli abiti in circolazione sono realizzati di fibre sintetiche totalmente o in percentuale superiore al 50% e questo ne inibisce il riciclo. L'abbassamento dei costi al dettaglio di ciò che acquistiamo, visibile entrando in una delle catene di abbigliamento presenti nelle nostre città, ha prodotto il drastico abbassamento della qualità dei tessuti impiegati, perchè le fibre nobili (cotone, lana, eccetera) costano più di quelle sintetiche. Ma la selezione, nei centri Humana sia in Italia che in Bulgaria e Slovacchia, è non solo qualitativa ma anche “geografica”: nei paesi subsahariani l'abbigliamento pesante, cappotti, giacche a vento e così via, è inutile per ragioni di clima, mentre può essere utilizzato in Georgia o in Afghanistan. Anche questa seconda selezione produce abiti che vengono donati ai paesi in cui Humana interviene, come il Malawi: tutti gli utili delle operazioni di Humana, oltre che ingenti tonnellate di abiti vengono donati al fine di finanziare progetti di solidarietà nel Sud del Mondo. Le donazioni destinate al Malawi sono gestite da DAPP (Development Aid from People to People), ONG locale membro del network di Humana, che in massima parte è diretta da cittadini del paese. Ora mettiamoci in viaggio: raggiungere Blantyre, la capitale commerciale del Malawi, non è un viaggio breve, ci vogliono quasi 20 ore di viaggio tra Milano, Addis Ababa e Lilongwe (capitale dello stato) prima di arrivare. Il paesaggio del paese è quello di un paese agricolo, verso la fine della stagione subequatoriale delle piogge, pianure verdi, montagne in lontananza ricoperte di vegetazione, poche strade asfaltate e appena lasciato l'asfalto, cosa che avviene puntualmente durante la nostra visita, terra rossa che ti riempie gli occhi, in senso fisico e metaforico. I nostri ospiti sono alcuni responsabili di DAPP (Development Aid from People to People) ossia il soggetto malawense cui Humana destina le risorse raccolte in occidente. In 3 giorni molto intensi (anche per lo shock termico e culturale) visiteremo gli uffici di DAPP ma soprattutto una scuola elementare, due istituti di formazione per insegnanti frequentati da giovani tra i 18 e i 21 anni, il centro di smistamento degli abiti usati donati da Humana (in cui ci sono anche gli abiti provenienti da ViviBalon) e le strutture cui gli abiti selezionati sono indirizzati e cioè un centro di vendita all'ingrosso e uno dei tanti negozi DAPP di vendita al dettaglio siti in Malawi e, infine, un progetto pilota per l’autopromozione dei contadini e delle comunità mediante lo sviluppo di coltivazioni di noci di macadamia da integrare alle colture di autosussistenza. In tutte queste attività e in molte altre nel paese vengono utilizzati i proventi fisici ed economici dei “donatori”, tra cui proprio ViviBalon.
La scuola di primo e secondo ciclo che visitiamo è nella periferia di Blantyre, ma nulla di più diverso da una periferia urbana per come noi la concepiamo: siamo in campagna, senza allaccio di energia elettrica, con una serie di casette, una per ogni classe, e con una dotazione strutturale veramente esigua: in alcune classi mancano i banchi e ciò è un problema per l'iscrizione dei bambini, così come la distanza da percorrere sotto il sole, a volte alcuni chilometri nella campagna, spesso a piedi nudi. Ovviamente questo incide enormemente sulla “mortalità scolastica”: circa il 10/15 % degli allievi raggiunge l'ottavo ciclo di studi. Gli interventi di DAPP in questa e molte altre scuole sono a due livelli, uno strutturale con donazioni di materiale scolastico concordato e un'altra, che osserveremo nei nostri giorni malawensi, con la formazione di insegnanti che verranno impegnati nelle scuole: è quest'ultimo, ovviamente, l'intervento più incisivo e strutturale, visto che si stima che DAPP concorra con le sue scuole a formare circa il 10% del corpo insegnante del Paese. Questo ci porta alla visita a due degli istituti che formano i giovani insegnanti, che visitiamo nei giorni successivi: sono strutture in cui una sessantina di giovani aspiranti maestri dai 18 ai 21 anni vengono formati in accordo con il le Istituzioni per operare nelle scuole del primo ciclo. Le due scuole sono fuori da Blantyre, Chilangoma e Amalika, lavorano in forte connessione con le comunità locali in cui sono collocate e ospitano per tre anni i giovani allievi che vivono nelle strutture. L'approccio che vediamo nelle due strutture è identico nei metodi di insegnamento e di vita quotidiana, declinato in territori differenti, articolati in due idee portanti learning by doing e learning by travelling, uniti ad una attenzione estrema al ruolo della scuola nella comunità dell'area di riferimento: entrambe le scuole accolgono studenti provenienti in maggioranza dal territorio, pur con la consapevolezza che in Malawi gli spostamenti, prevalentemente a piedi o in bicicletta, con una rete di strade sterrate e di trasporti pubblici fragili, fanno risultare la distanza di qualche chilometro molto maggiore di quel che può apparire a noi. Learning by doing, imparare facendo, è un approccio di cui tutti dovremmo fare tesoro, perchè mette le ragazze e i ragazzi di fronte alle difficoltà di scuole dove l'apprendimento passa anche per la costruzione di strumenti didattici insieme agli allievi e per la condivisione di tecniche di agricoltura e sostentamento: gli aspiranti maestri raccolgono flora e fauna locale, coltivano orti e campi di mais, patate, pomodori, zucche e altro ancora utilizzati dalla scuola per la loro alimentazione, affollano le aule didattiche di cartelloni e oggetti autocostruiti. Se a prima vista un visore di cartone con un foglio che scorre a simulare un visore, un telefonino e due laptop di legno possono far sorridere, a pensarci bene rappresentano un approccio minimale e sostenibile ad una tecnologia che oggi né i bambini, né le scuole possono permettersi, ma che è giusto conoscere. Affascinante l'approccio learning by travelling, che affonda le sue radici nelle pratiche dei fondatori di Humana in Danimarca e Svezia negli anni '70: il viaggio era allora una delle principali fonti di conoscenza del mondo e perciò di noi stessi, partendo dai “magic bus” che portavano giovani di tutto il mondo in Oriente alla scoperta del mondo. La pratica fu formalizzata in alcuni progetti pedagogici sperimentali danesi più di 40 anni fa e viene oggi utilizzata nelle scuole DAPP in Malawi, Mozambico e in altri paesi: i ragazzi delle scuole iniziano così il loro percorso didattico, dopo appena un mese di scuola, in un viaggio di 16 settimane insieme agli insegnanti totalmente autogestito, in cui possono e devono decidere l'itinerario, le fermate, la gestione di una cassa comune e di conseguenza del cibo e dei pernottamenti, oltre che delle riparazioni del bus e di molto altro ancora. La pratica è affascinante e non stento a dire che amerei praticarla, sarebbe molto utile anche a molti post adolescenti europei, offre incredibili opportunità di crescita dal punto di vista dell'autonomia e della costruzione del sè, della relazione in un gruppo di 30 persone che deve prendere decisioni comunitarie, della conoscenza del proprio territorio e di quelli confinanti (la pratica del viaggio è ben diversa per costi, obiettivi, opportunità in paesi come il Malawi, dove spesso è difficile anche solo allontanarsi dal proprio villaggio di nascita). Imparare viaggiando è credo una intuizione felice e affascinante di un metodo didattico che è integrato con una attenzione esasperata alla cura delle relazioni comunitarie, sia dell'habitat scolastico sia del territorio. Un'altra visita ci porta a ripercorrere la filiera dell'abito usato a partire dalle donazioni di Humana Italia (e di altre Humana europee): le balle di vestiti si accumulano in un enorme capannone a Blantyre dove venticinque lavoratori le selezionano dividendole per generi e destinandole sia alla preparazione di balle più piccole, da vendere direttamente a chi le porterà nei mercatini, sia agli innumerevoli negozi di usato che DAPP ha aperto nel paese: visiteremo uno di questi negozi in città insieme ad un centro di vendita all'ingrosso degli abiti usati. Durante le visite abbiamo avuto domande e discussioni aperte con i responsabili di DAPP Malawi: le ragioni etiche, l'intreccio con gli aspetti imprenditoriali, la filiera e la relazione con il personale impiegato sono temi che vengono affrontati apertamente. La filiera (che è stata certificata dal punto di vista etico-economico nel 2017 da Bureau Veritas) ha indubbiamente una impronta imprenditoriale, che spinge ogni snodo (selezione e cessione a chi rivende all'ingrosso e al dettaglio, rivenditori nelle due forme) a raggiungere obiettivi economici minimi per la raccolta fondi per i progetti economicamente più fragili, ma al tempo stesso ha standard relazionali e sociali difficili da trovare nel paese, dagli spazi offerti ai lavoratori per le pause alla sicurezza sul lavoro ai target produttivi da rispettare, raggiunti dal 90% dei dipendenti. Infine, una visita al progetto nato nel 2017 per dotare i contadini di coltivazioni diffuse di noci di macadamia, un frutto utilizzato per produrre olio, farina e per allietare gli aperitivi di tutto il mondo, insieme alle arachidi. Il progetto è di lungo periodo, servono circa 5 anni perchè gli alberi siano produttivi, ed è molto interessante l'organizzazione della filiera, la cui scoperta inizia con la visita al Farmers' Club Macadamia Thyolo. L'agricoltura è il settore fondamentale dell'economia malawense, impiega almeno l'80% della popolazione e il progetto, che coinvolge 8 distretti del paese, in essi aggregazioni di agricoltori come quella che visitiamo prevedono la piantumazione di 300.000 piantine di noci di macadamia. DAPP ha costruito una rete di agricoltori, ognuno pianta e gestisce 10 piante di noci, c'è un responsabile ogni 5 agricoltori e, sempre tra gli agricoltori, con una struttura ad albero si arriva ad un gruppo di coordinatori del progetto per il distretto di Thyolo. La visita ci porta poi in uno dei villaggi dove le piante vengono distribuite e interrate. L'accoglienza del piccolo villaggio è festosa come sempre del resto nelle nostre visite: tutto il piccolo consesso di un centinaio di persone ci accoglie con canti e balli e con una preghiera rituale. La capo villaggio ci racconta in lingua locale come la comunità segua e collabori non solo nel piantare le noci, ma anche nel produrre il compost per nutrire le piante. Un agricoltore ci porta nei campi a visitare parte delle sue cento piantine, che lui coltivai insieme a mais, sorgo, patate, ortaggi.
E' toccante vedere queste piantine iniziare un ciclo di vita che si tramanderà ai figli e nipoti, visto che la pianta può produrre frutti per più di cento anni, e la passione con cui la comunità del territorio segue l'evoluzione del raccolto.
Qualche riflessione al termine di questo lungo racconto:
- abbiamo visitato progetti diversi, agricoli, didattici, scolastici, commerciali, tutti però inseriti in logiche comunitarie, di costruzione di relazioni con le persone coinvolte, che manifestano un percorso di rafforzamento e costruzione di una coscienza collettiva che è il nodo di governo dei processi;
- abbiamo percepito una determinazione nel costruire interventi duraturi (dalle noci all'istruzione di insegnanti) che intervengono sul lungo periodo per migliorare la vita delle persone;
- abbiamo toccato con mano una sorta di welfare mix, in cui i finanziamenti dei progetti derivano da donazioni in denaro e in natura (il tessile) che producono a loro volta altre entrate per realizzare progetti e attività.