La disputa sugli abiti usati tra Stati Uniti e Ruanda
Nel marzo 2018 gli Stati Uniti avevano dato al Ruanda un preavviso di 60 giorni per sospendere il blocco sulle importazioni degli abiti usati dall'occidente minacciando ripercussioni. Adesso il termine è scaduto ma lo stato africano non ha fatto marcia indietro
29 May, 2018
Gli Stati Uniti hanno deciso di 'punire' il Ruanda nell'ambito del commercio globale, imponendo delle tariffe sulle esportazioni del piccolo stato africano, colpevole di aver stabilito di non importare più scarpe e vestiti usati provenienti da Usa e Europa.
Nel marzo 2018 gli Stati Uniti avevano dato al Ruanda un preavviso di 60 giorni per sospendere il blocco, basato su un forte aumento delle tasse sulle importazioni dei vestiti occidentali fino alla graduale eliminazione. L'amministrazione Trump aveva minacciato diverse ripercussioni, tra cui quella di essere estromessi insieme a Tanzania e Uganda - anch'essi sostenitori del blocco ma a quanto pare ritiratesi - dall’African Growth and Opportunity Act (AGOA, Patto africano per la crescita e le opportunità), un programma destinato a promuovere lo sviluppo economico e politico nell’Africa sub-sahariana.
In base all’accordo, i paesi che soddisfano determinati diritti umani e standard lavorativi sono esentati dai dazi degli Stati Uniti su migliaia di esportazioni tra cui petrolio, prodotti e anche abbigliamento paradossalmente.
Adesso quei 60 giorni sono scaduti e il Ruanda non ha fatto marcia indietro.
Perché
il Ruanda ha vietato l'importazione di vestiti usati?
L'idea è di proteggere la sua nascente industria tessile. Molte nazioni africane erano un tempo sede di vivaci industrie nel comparto, ma decenni di cattiva gestione, instabilità e aumento della competizione globale le hanno messe a dura prova.
Uno studio ha scoperto ad esempio che in Ghana la liberalizzazione del mercato degli anni '80 aveva portato a un forte calo dei posti di lavoro nel tessile e nell'abbigliamento - da 25.000 persone nel 1977 a solo 5.000 nel 2000. Il Kenya invece aveva mezzo milione di lavoratori nel settore un paio di decenni fa. Oggi ne restano poche decine di migliaia.
Le ingenti quantità di abbigliamento di seconda mano provenienti dall'occidente sono state chiaramente un fattore decisivo nel collasso
dell'industria dell'abbigliamento nell'Africa sub-sahariana. I vestiti usati americani ed europei erano così a buon mercato che le fabbriche
tessili locali, gli artigiani e i sarti autonomi non potevano
competere.
Secondo uno studio dell'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID), nel 2015 la Comunità dell'Africa orientale (EAC) rappresentava circa il 13% delle importazioni globali di indumenti usati, per un valore di 274 milioni di dollari (205 milioni di sterline). I governi dell'Africa orientale sostenevano che la domanda interna di vestiti fatti a mano veniva soffocata da vestiti di seconda mano a buon mercato. Così, nel 2015, i paesi dell'EAC hanno annunciato che l'abbigliamento usato sarebbe stato bandito dai loro mercati a partire dal 2019.
Perché questo ha allertato gli Stati Uniti?
A quel punto l'organizzazione statunitense Secondary Materials and Recycled Textiles Association (SMRTA), ha presentato una petizione all'ufficio commerciale Usa (USTR) affermando che la decisione dell'EAC avrebbe causato "notevoli difficoltà economiche", provocando la perdita di 40.000 posti di lavoro.
"L'EAC però ha contestato molte delle statistiche utilizzate da SMRTA", ha detto alla BBC Grant T Harris, che è stato il principale consigliere dell'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama su questioni relative all'Africa.
E i cittadini ruandesi cosa ne pensano?
Secondo la BBC alcuni non sono entusiasti della politica del governo. "Capisco che il Ruanda ha bisogno di sviluppare le proprie industrie, io sostengo la campagna" Made in Rwanda ha dichiarato un operatore socioculturale ", ma dobbiamo ancora vedere queste industrie: sarebbe stato giusto se il governo avesse permesso l'abbigliamento di seconda mano per il bene dei poveri”.
La
commerciante di abiti di seconda mano, Rulinda Elmass, ha dichiarato alla BBC di non essere contraria al piano di sviluppo delle industrie locali.
"Ma per ora sono pochi e quasi inesistenti." Ha detto che
la cosa più giusta sarebbe consentire la concorrenza ai
vestiti di seconda mano perché "le persone dovrebbero avere la
possibilità di scegliere".