Abiti usati e progetti sociali, 'Humana People to People' si racconta
Si tratta del più grande operatore della raccolta di vestiti usati in Italia: circa 1.200 comuni serviti, 5.000 contenitori, oltre 22.000 tonnellate raccolte nel 2017. Il “pay off” dell’organizzazione è “piccoli gesti che trasformano il mondo”. Abbiamo intervistato la Presidente Karin Bolin
20 March, 2019
Humana People to People Italia è il più grande operatore della raccolta di vestiti usati in Italia: circa 1.200 comuni serviti, 5.000 contenitori, oltre 22.000 tonnellate raccolte nel 2017. Il “pay off” dell’organizzazione è “piccoli gesti che trasformano il mondo”. Abbiamo intervistato la Presidente Karina Bolin.
Karin Bolin, come si trasforma il mondo a partire dagli abiti usati?
Il mondo può cambiare anche grazie agli abiti usati perché, quando Humana li raccoglie e li vende, non fa lucro ma utilizza ogni margine economico per finanziare progetti per l’istruzione, lo sviluppo agricolo e la lotta alle epidemie. Quando siamo nati, alla fine degli anni ’70, eravamo molto vicini ai movimenti di liberazione africani contro il colonialismo e partecipavamo alle lotte contro l’apartheid. I nostri volontari raccoglievano vestiti in Scandinavia per donarli ai profughi dell’ex Rhodesia. Poi, piano piano, ci siamo professionalizzati e abbiamo costruito una filiera produttiva e commerciale finalizzata a generare risorse economiche per progetti di sviluppo. Ad accendere la scintilla della nostra metamorfosi fu un colloquio con Samora Machel, il leader del socialismo africano che dopo la caduta del colonialismo portoghese era diventato il primo Presidente del Mozambico indipendente. Machel lodò le nostre intenzioni e attività ma ci chiese di smettere di regalare i vestiti per non creare dipendenza in un popolo impegnato in uno sforzo di libertà e autonomia. Ci suggerì, piuttosto, di venderli a basso prezzo per poi usare i ricavati per progetti di sviluppo. Il paese non aveva bisogno di beneficenza ma di programmi per crescere. Nel 1980 in Mozambico non c’era quasi nessun laureato. Ci chiamiamo “people to people” perché la nostra solidarietà avviene direttamente dalle persone alle persone senza l’intermediazione dei governi. Da chi dona a chi compra a chi viene coinvolto nei progetti di solidarietà.
Movimenti di liberazione, lotta all’apartheid…Siete un gruppo rivoluzionario?
No, non è corretto definirci in questo modo. Senza alcun dubbio sogniamo un mondo molto diverso da quello attuale: un mondo dove solidarietà e comunità siano al centro della vita economica e sociale. Ma non abbiamo ricette a disposizione né crediamo che il mondo possa essere cambiato semplicemente conquistando il potere politico o economico. Per cambiare le cose bisogna modificare i processi economici e sociali, altrimenti si fanno le rivoluzioni il cui unico effetto è sostituire il gruppo dirigente. Occorre sporcarsi le mani nei villaggi e nelle periferie, ricostruendo legami comunitari laddove non esistono più o si stanno disgregando. Bisogna creare e rodare forme economiche collaborative che riescano a essere efficienti anche quando non hanno fine di lucro. Solo seguendo questa strada, passo passetto e a prescindere dalle ideologie, la trasformazione è possibile. I nostri progetti hanno sempre il medesimo filo conduttore: promuovere la capacità di rete e autorganizzazione delle persone, perché gli individui possano esprimere la loro potenzialità grazie al sostegno della loro comunità. Nelle nostre scuole insegniamo l’autorganizzazione; nei campi creiamo reti di contadini perché riescano a creare economie di scala e avere più forza negoziale verso fornitori e clienti; per la lotta alle epidemie creiamo “brigate comunitarie” che continueranno a funzionare anche se Humana per qualche motivo dovesse andarsene. A differenza di altri enti di cooperazione internazionale noi non parliamo mai di “beneficiari” di un progetto, il termine che usiamo è “persone mobilitate”. Sono concetti diametralmente diversi, il primo è sostanzialmente riconducibile alla beneficenza, il secondo alla solidarietà. Noi facciamo solidarietà “spalla a spalla”: non “aiutiamo i poveri” ma “lottiamo con i poveri”.
Beh, però questi sembrano discorsi rivoluzionari…
Vogliamo cambiare il mondo, ma non facciamo politica. Sul piano prettamente ideologico, comunque, è innegabile che all’inizio siamo stati influenzati dai grandi pensatori del socialismo africano. Il leader tanzanese Julius Nyerere negli anni ’60 evocava una metamorfosi della ujamaa, ossia la gestione comunitaria tradizionale e tribale delle risorse comuni, in una nuova e più vasta comunità capace di trascendere e superare i legami di sangue per diventare modello di un nuovo Stato e di un nuovo Patto Sociale. Nella società africana tradizionale, diceva Nyerere, gli individui vivono in comunità. La comunità attinge dagli individui e questi attingono dalla comunità. L’Africa, diceva, non aveva bisogno di essere convertita né al socialismo né alla democrazia; un socialismo africano, infatti, sarebbe derivato dal retaggio della tradizione, ovvero la società come estensione dell’unità familiare.
Ho sentito dire che in Humana ci sono persone che hanno scelto di vivere in comune, in una sorta di famiglia
E’ vero. Alcuni di noi hanno scelto un modo vita comunitario. Leggiamo libri e giornali, discutiamo di geo-politica e geo-economia, di pedagogia, cerchiamo di tenerci aggiornati e informati, di condividere il nostro pensiero. Non sentiamo alcun bisogno di appiattirci su “posizioni unitarie”, non siamo un partito, non abbiamo bisogno di una linea. La nostra affinità è di tipo valoriale. Ci riconosciamo nel concetto di “Umanismo Solidale”: come Nyerere, crediamo che l’individualismo sfrenato non porti da nessuna parte e che i legami comunitari debbano essere reinventati in chiave moderna. Per questo mettiamo i nostri soldi in una cassa comune e poi decidiamo all’unanimità come distribuirceli in base ai nostri bisogni. E’ un esperimento. Io ne faccio felicemente parte da quarant’anni!
Una Comune tipo figli dei fiori negli anni ’60?
La nostra comune è nata nel 1970 ma non è di tipo “hippie”. Tutto è nato da un gruppo di professori danesi che ha deciso di fare un viaggio in giro per il mondo per osservare in prima persona le condizioni dei più poveri: contadini indiani, profughi palestinesi, africani in lotta contro il colonialismo. Da lì poi l’idea di creare un metodo pedagogico basato sull’esperienza e sul viaggio. I professori fondarono quindi la “Travelling Folk High School” coinvolgendo migliaia di ragazzi. Dato che non tutte le attività di questa scuola erano finanziate dal Ministero dell’Istruzione, i Professori decisero di portare comunque avanti la totalità del loro progetto condividendo i salari perché fossero redistribuiti secondo i bisogni, integrando costi grazie alla vita in comune. Grazie a questa cassa comune chi non riceveva un salario poteva comunque continuare a lavorare al progetto pedagogico comune. Per questo la “comune” ha preso il nome di “teacher group”, che significa “gruppo dei professori”. Humana nasce alla fine degli anni ‘70 da alcuni di questi professori unitamente ad alcuni degli studenti della Travelling Folk High School.
Chi lavora in Humana deve necessariamente far parte del “teacher group”?
Assolutamente no! Humana e il “teacher group” sono due cose distinte e non va fatta confusione. Humana è un movimento internazionale composto da 30 organizzazioni che funzionano in base alla loro ragione sociale e che sono governate secondo il loro statuto. Il “teacher group” è invece un gruppo informale, basato su affinità spontanea e voglia di sperimentare uno stile di vita diverso. Molte persone di Humana non fanno parte del “teacher group” e tante persone del “teacher group” non fanno parte di Humana. A volte l’esistenza di questa dimensione comunitaria vicina ad Humana crea curiosità e stupore: ma non siamo di certo l’unica organizzazione non profit che è vicina, per affinità e amicizie, a una realtà comunitaria. Basti pensare a quanto spesso questo accade nel mondo Cattolico o Missionario, senza che nessuno ci veda nulla di strano. Ma noi siamo completamente laici, e forse è proprio questo l’elemento più difficile da capire.
In un servizio di BBC alcuni ex dipendenti della filiale di Humana in Malawi, che si chiama DAPP, dichiarano di essere stati costretti a consegnare metà del loro stipendio al Teacher Group.
In un movimento internazionale che impiega sedicimila persone è inevitabile che ogni tanto qualcuno venga licenziato e che tra questi qualcuno se ne vada sbattendo la porta. Nel caso degli ex dipendenti di DAPP Malawi l’aspetto sgradevole è stato il tentativo di mettere sotto pressione l’organizzazione coinvolgendo i media e presentando versioni completamente distorte dei fatti. Ci siamo stupiti che due giornalisti di BBC l’autore abbiano voluto dare credito a queste istanze al punto di montarci sopra uno scoop, oltretutto fornendo giudizi infondati sull’operato dell’intero movimento internazionale e aggiungendo informazioni scorrette su presunte lamentele di UNICEF rispetto ai progetti di solidarietà. Nel loro articolo si arriva a dire che Humana è controllata da uno “pseudo-culto”, riferendosi al Teacher Group. Ma culto di cosa? Quale sarebbe la dottrina o l’oggetto del culto? E in base a quali dati i due giornalisti parlano di “controllo”? La governance delle organizzazioni aderenti a Humana è esattamente quella prevista dal loro statuto, e il coordinamento tra le varie organizzazioni avviene in base a riunioni formali e verbalizzate, in prevalenza nel seno della Federazione Internazionale Humana People to People; quest’ultima funziona in maniera democratica: una testa vale un voto. Questa è la realtà, il resto sono illazioni la cui unica fonte sono fake news che da tempo circolano in internet e contro le quali è difficile fare qualcosa. L’avvocato di DAPP Malawi ha scritto al giornalista di BBC una lunga lettera, facendogli notare di non aver fatto buon giornalismo. Tre persone che si lamentano, e si butta fango su un intero movimento umanitario internazionale con 40 anni di storia e circa 1099 progetti in corso che coinvolgono circa 14 milioni di beneficiari. Assurdo! In Norvegia la testata Vart Land, analogamente ai due giornalisti della BBC, aveva dato risalto a queste fake news del web lanciandole come fossero uno scoop e speculandoci sopra. Nel 2011, dopo un’istruttoria formale, la testata è stata condannata dall’organo nazionale di controllo della stampa per cattivo giornalismo. La BBC, dal canto suo, nel 2018 ha parzialmente compensato facendo un bel servizio sulla lotta contro l’AIDS portata avanti da Humana in Namibia.
Da dove provengono le “fake news” che circolano in internet?
C’è un ristretto gruppo di persone, non so se due, tre o quattro, che dedica enormi quantità di tempo a scrivere e a far circolare accuse di ogni tipo contro il nostro movimento. Il teorema di questa campagna di denigrazione è più o meno sempre lo stesso: qualsiasi illecito venga contestato a una persona che si suppone faccia parte del “teacher group” è da considerarsi di responsabilità del “teacher group”. E per traslazione arbitraria, qualsiasi cosa venga contestata al “teacher group” viene considerata di responsabilità di Humana. Inoltre ogni aspetto peculiare o articolato della nostra struttura organizzativa viene automaticamente interpretato con pregiudizio e malevolenza, senza alcuna volontà di reale approfondimento. Ogni difficoltà in cui incappiamo viene osservata con lente di ingrandimento per essere poi gonfiata e deformata al fine di scandalo. Il risultato è un abnorme castello di carte che induce i lettori a pensare che Humana sia una rete torbida, composta da affaristi che si dedicano a lavare denaro, evadere le tasse e dirottare i fondi per la solidarietà alle casse del Teacher Group. I nostri “haters” si sono accaniti in particolare sulla vicenda di Amdi Petersen, presentando ricostruzione dei fatti completamente alterata.
Chi è Amdi Petersen?
Una persona che stimo molto, uno dei professori che ha fondato la Travelling Folk High School e il “teacher group” nel 1970. Oggi ha 80 anni, e li ha dedicati quasi interamente a lotte sociali e ambientali. In Danimarca è famoso per essere stato uno degli organizzatori della costruzione di un enorme torre eolica, al tempo la più grande del mondo, durante la campagna che nel 1978 ha portato la Danimarca a proibire l’energia nucleare. Non ha mai avuto un ruolo in Humana, anche se le sue opinioni hanno avuto un forte peso quando il movimento è nato. Nel 2001 si è visto contestare, assieme ad altri, errori fiscali e di gestione avvenuti negli anni ’80 in relazione a una fondazione non legata ad Humana. La Fondazione finanziava progetti sociali, incluso qualche progetto di Humana la cui utilità collettiva e correttezza è stata dimostrata nel corso del processo. Petersen ha dimostrato di non aver intascato mai un soldo dalla Fondazione e di non avere responsabilità legali nelle decisioni prese. E’ stato quindi assolto in primo grado nel 2006, ma per dimostrare la sua innocenza, d’ accordo con la legge danese, è stato obbligato a sedere in un aula per 161 giorni a tempo pieno nell’arco di 5 anni nonostante vivesse all’estero. Di fronte a una richiesta d’appello del pubblico ministero che lo avrebbe obbligato almeno ad altri 80 giorni di aula Amdi Petersen si è stufato e, assieme ad altri imputati, ha preso la scelta di non rimanere in Danimarca. L’accusa si è impuntata e ha ottenuto che fossero iscritti al registro dei ricercati dell’Interpol; a mio avviso un accanimento considerata l’entità dei fatti contestati. Uno degli ex amministratori della fondazione è stato condannato a un anno pena sospesa per un pagamento improprio ascrivibile a scorrettezza gestionale ma senza che abbia provocato alcun ammanco di fondi. In tutta questa storia ci possono essere stati errori o superficialità di gestione ma non ci sono crimini, chi aveva ipotizzato frodi di qualche tipo è stato smentito. E per di più gli errori amministrativi riscontrati non hanno nulla a che fare, neanche lontanamente, con la responsabilità di nessuna organizzazione del circuito Humana People to People. Nessuna delle organizzazioni del nostro movimento è stata mai sfiorata giudiziariamente da queste vicende.
Humana, in generale, quali garanzie offre sull’uso dei propri fondi?
Per aderire alla Federazione Humana bisogna obbedire a standard di controllo molto rigorosi. I bilanci sono certificati e sono oggetto di audit esterni compiuti da enti autorevoli e indipendenti. In Italia abbiamo cercato di andare anche oltre, sviluppando assieme a Bureau Veritas (autorevole ente di certificazione internazionale, ndr) uno strumento chiamato ESET che consente di verificare i flussi degli abiti usati e del denaro lungo l’intera filiera internazionale. Tutte le filiere degli abiti usati sono internazionali ed articolate, ma spesso l’ente non profit che costituisce il primo anello della catena non ha alcuna idea di cosa accada con i vestiti dopo la fase della raccolta o della prima selezione. Noi invece, grazie all’articolazione internazionale del nostro movimento, abbiamo un buon grado di controllo e possiamo offrire più trasparenza rispetto alla media. I revisori di Bureau Veritas monitorano i flussi internazionali di vestiti e di denaro generati dal nostro lavoro di raccolta verificando, tra le altre cose, che in nessun passaggio Humana faccia lucro diretto o indiretto e che i fondi siano effettivamente destinati ai progetti sociali. Chi parla di travasi di denaro diretti o indiretti dalle casse di Humana a mani private o è in mala fede oppure pecca di grave superficialità nel ripetere ed alimentare illazioni create da altri. La scorsa estate mi è capitato tra le mani un libricino di Schopenhauer dove ho letto una frase che si adatta molto bene alla situazione, più o meno diceva: “a tutti piace avere un’opinione su tutto in ma pochi sono disposti ad approfondire per farsi un’idea fondata”. Potremmo fare un lungo ragionamento sul fenomeno delle fake news e sulla necessità di creare una cultura di massa su come orientarsi nel “mare magnum” dell’informazione contemporanea.
Ma la ragione di questa campagna di denigrazione qual è?
L’accanimento di alcune persone nei nostri confronti secondo me può essere spiegato bene con una frase di San Bernardino da Siena, che disse che: “è impossibile fare il bene senza che qualcuno dica che stai facendo il male”. Questo accade perché chi veramente trasforma le cose in meglio non può fare a meno di rompere equilibri e provocare reazioni. Ad esempio, in certi campi di attività, rompe equilibri essere non profit e riuscire a fare grandi cose senza aiuti pubblici né politici. Rompe equilibri fare cooperazione internazionale senza dipendere dai Governi e dalla loro politica estera. Rompe equilibri non entrare nella mentalità clientelare e non fare turbative d’asta per aggiudicarsi i servizi di raccolta degli indumenti usati. E quando qualcuno si sente minacciato dalla tua esistenza e dal tuo modo di fare, è normale che ti attacchi per difendersi.
Humana non ha un profilo da tipica attività non profit...
E’ vero! Noi finanziamo i nostri progetti di solidarietà grazie ad attività di raccolta e vendita di vestiti usati che hanno un approccio gestionale che mira all’efficienza. Un’impostazione di tipo aziendale ma senza nessuna forma di lucro. Purtroppo non in tutti i paesi il nostro tipo di non profit viene riconosciuto dalla normativa settoriale, e ci sono ancora molte persone che, ancorate a visioni vetuste, non riescono a concepire l’idea di un connubio tra efficienza ed economia sociale. Nel Regno Unito, dove in passato la commissione nazionale sui charity shop aveva messo in discussione la nostra finalità non lucrativa, l’ultima riforma del terzo settore riconosce finalmente la possibilità di adottare modelli aziendali di non profit come il nostro. In Italia, invece, noi siamo ancora costretti a operare come cooperativa a responsabilità limitata, e per conciliare questa ragione sociale con la nostra missione non lucrativa abbiamo dovuto adottare uno statuto che specifica a chiare lettere che utili e ristorni non possono essere redistribuiti tra i soci ma debbono necessariamente finanziare progetti di solidarietà. Ma anche qui, per fortuna, i decreti applicativi dell’ultima riforma settoriale potrebbero cambiare a breve le cose in meglio. Ne “La società a marginalità zero” Rifkin spiega che i modelli come il nostro sono il futuro. L’economia non profit erediterà il mondo.
Il risultato del vostro lavoro sociale, in sintesi
Nel 2017 Humana Italia ha destinato ai progetti nel Sud del Mondo 1.523.000€ attraverso i quali abbiamo sostenuto 41 interventi in 8 paesi in Africa Subsahariana (Malawi, Repubblica Democratica del Congo, Zambia, Zimbabwe, Angola, Mozambico e Namibia) e India, per il 2018 stiamo finendo i calcoli ma è stato circa un 20%in meno a causa della crisi dei prezzi di mercato internazionali dei vestiti usati. Nel 2017 i progetti ci hanno permesso di raggiungere e migliorare la vita di oltre 150.000 persone attraverso interventi nel settore dell’istruzione e della formazione, nella prevenzione e tutela della salute, nel campo dell’agricoltura sostenibile e della sicurezza alimentare e nel settore dell’aiuto all’infanzia e dello sviluppo comunitario. A marzo 2018 sono andata personalmente a verificare l’andamento dei progetti finanziati da Humana Italia in Malawi e ho avuto l’onore di essere accompagnata da Francesco Gesualdi, allievo di Don Milani, grande esperto di filiere internazionali e consumo etico. Durante la visita all’Istituto di Formazione Professionale ad Amalika Francesco mi ha detto di aver riconosciuto lo stesso spirito e gli stessi metodi pedagogici che utilizzava Don Milani nella scuola di Barbiana. Cosa veramente sorprendente, dato che nessuno degli insegnanti di Amalika conosceva l’esperienza di Don Milani. Francesco ha dato una spiegazione commovente: certi tipi metodi e di approcci non dipendono dal DNA, ossia dal filone delle esperienze tramandate, ma direttamente dal cuore.