\"La notte del black out\"
Estratto dal libro "Un futuro senza Luce?" di Maurizio Pallante in uscita per Editori Riuniti
10 December, 2003
La notte del black out Maurizio Pallante Il secondo black out dell’annus mirabilis 2003, dopo tanti sterili «al lupo!, al lupo!» che a forza di essere ripetuti avevano smesso di creare apprensione, finalmente è arrivato domenica 28 settembre, alle 3 di notte, nell’ora in cui la domanda di energia elettrica era minima e la potenza utilizzata un terzo di quella totale: 20 mila megawatt su 60 mila. Il Mengozzi che, dopo quarant’anni su e giù per le impalcature nei cantieri edili della provincia di Forlì, era tornato a rimettere in funzione, col contributo del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, il vecchio mulino di Premilcuore dove avevano lavorato e vissuto almeno 12 generazioni precedenti alla sua, non se ne accorse nemmeno. Alle tre e mezzo, puntuale come tutte le notti, si era svegliato con la vescica gonfia, aveva acceso la luce, era andato nel gabinetto a svuotarla e si era riaddormentato al ritmo regolare del gorgoglio che fa il ruscello in fondo alla cascatella. La notizia la seppe la mattina dopo dai gitanti che erano andati a vedere come si viveva prima che il progresso e la modernità ci proiettassero in un futuro di comodità e benessere. «Fu mio padre – disse ai visitatori – a far inserire una turbinetta nel salto dell’acqua poco sopra le pale del mulino, quando ancora da tutta la valle i contadini salivano fin qui per far macinare grano, granturco e castagne. Da allora la corrente ce la facciamo da soli». Alla stessa ora del mattino il Presidente della Repubblica e il Ministro dell’Industria dell’epoca, aggiungendo alla loro autorevolezza istituzionale l’autorevole avallo di tecnici e scienziati, sotto i riflettori di due tribune diverse proclamavano davanti a uno stuolo di giornalisti eccitati che non erano più tollerabili indugi nella costruzione di nuove centrali elettriche, perché in un paese civile non si potevano verificare così gravi carenze di offerta rispetto alla domanda da bloccare di colpo tutto il sistema. È indispensabile per il progresso, aggiunse il Presidente con un’espressione da vecchio padre saggio e severo, fornire quantità crescenti di energia per soddisfare la crescita della produzione e dei consumi. A queste ineccepibili riflessioni, che tuttavia si limitavano alla diagnosi e alla terapia, da una terza tribuna non meno illuminata e affollata lo Scienziato aggiunse – e non poteva non farlo, altrimenti che scienziato sarebbe stato? – l’eziologia. «La responsabilità di una carenza energetica così grave da scatenare il black out - sentenziò - è di quei mascalzoni retrogradi degli ambientalisti, i quali, suscitando paure irrazionali nei confronti della scienza, 15 anni fa hanno sbarrato la strada allo sviluppo della tecnologia nucleare». Ma come? Se si stava utilizzando soltanto un terzo della potenza disponibile lasciandone fermi i due terzi, in base a quale logica si poteva dedurre che per evitare altri black out sarebbe stato necessario accrescere l’offerta costruendo altre centrali termoelettriche e nucleari? Non sarebbe bastato mettere in funzione tempestivamente almeno una piccola parte di quelle che erano ferme? Già, ma perché erano ferme? Perché a notte fonda le persone generalmente dormono e la domanda di energia cala bruscamente rispetto alle ore diurne, quando le attività lavorative girano a pieno regime, e alle ore serali, quando il fabbisogno di illuminazione è massimo e a pieno regime girano le attività casalinghe e di intrattenimento. Se di notte i consumi elettrici diminuiscono drasticamente, che senso avrebbe continuare a bruciare fonti fossili e immettere CO2 in atmosfera per fornire un surplus di energia elettrica che non viene usata? Dunque, come tutte le notti, anche alle 3 del 28 settembre, i due terzi della potenza elettrica complessiva erano inattivi, quando d’improvviso, una mezz’oretta prima che il Mengozzi venisse svegliato dalla pressione della vescica nel suo mulino tra i boschi ai piedi del monte Falterona, in un bosco della Svizzera un albero di alto fusto si piegò sotto la pressione del vento e andò a coricarsi sui fili di una linea elettrica ad altissima tensione, rimanendo fulminato di colpo. Non se ne sarebbe accorto nessuno se la sua morte orribile non avesse provocato un’interruzione della trasmissione della corrente su quella linea, da cui conseguì un sovraccarico su un’altra linea e il suo distacco automatico dalla rete per motivi di sicurezza. La centrale nucleare che le alimentava interruppe l’erogazione della corrente, ma il sovraccarico si trasferì su altre linee alimentate da un’altra centrale nucleare francese. Entrambe le centrali riversavano una parte della loro potenza sulla rete elettrica italiana per un totale di 6.000 megawatt, che vennero di colpo a mancare. Il brusco calo di tensione che ne conseguì si propagò come un baleno su tutta la rete e una a una le centrali italiane in funzione si spensero in automatico, lasciando il paese completamente al buio, a eccezione del Mengozzi e di pochi altri autoproduttori (a esclusione, per ovvie ragioni, dei fotovoltaici...), che per lo più tuttavia non si accorsero della loro condizione eccezionalmente fortunata perché dormivano. «Visto che avevamo ragione? - dissero come un sol uomo il Presidente, il Ministro e lo Scienziato amplificati da un eccezionale dispiegamento dei mezzi di comunicazione di massa. – Se avessimo avuto più centrali non avremmo dovuto dipendere dall’estero per coprire il nostro fabbisogno». Che ci sia del vero in questo ragionamento non si può negare. Se non avessimo importato 6.000 megawatt dalla Francia e dalla Svizzera, la notte del 28 settembre a rimanere con la luce non sarebbero rimasti soltanto il Mengozzi e pochi altri autoproduttori. Ma, a parte il fatto che sarebbe stato sufficiente prenderli dai 40.000 inattivi, chi potrebbe garantire che la natura perfida e matrigna prima o poi non si serva di un fulmine o di una raffica di vento anche in Italia per far coricare un albero d’alto fusto su una linea ad altissima tensione? Per quale ragione, allora, invece di produrre questi 6.000 megawatt con le centrali esistenti si preferisce acquistarli? Qual è la convenienza? La convenienza consiste nel fatto che anche in Svizzera e in Francia la gente di notte dorme e la domanda di energia elettrica cala bruscamente. Ma le centrali nucleari, di cui questi due paesi sono superdotati, non si possono fermare e continuano a produrne, creando un’offerta di chilowattora superiore alla domanda che fa diminuire i prezzi. Del resto, piuttosto che sprecarli, a svizzeri e francesi conviene venderli a poco, almeno qualcosa guadagnano. E a noi comprarli costa molto meno che produrli. Tutto sommato, stando così le cose e non potendo impedire che Svizzera e Francia usino il nucleare, per quei 6.000 chilowatt di potenza noi evitiamo di scaricare in atmosfera la CO2 generata dalle centrali termoelettriche. Se, dunque, per scongiurare il ripetersi di black out notturni non serve costruire nuove centrali e non serve nemmeno essere autosufficienti a livello nazionale, cosa bisogna fare? Occorre accrescere la flessibilità del sistema in modo da ripristinarlo rapidamente nei casi in cui, in conseguenza di eventi accidentali imprevisti, vada in tilt. A eccezione delle centrali idroelettriche, che per ripartire ci mettono una decina di minuti, ai grandi impianti termoelettrici occorrono da 2 a 10 ore. Invece di pensare a costruirne altri, sarebbe molto meglio realizzare una miriade di piccoli e medi impianti di cogenerazione diffusa, che sono in grado di ripartire in pochi minuti e non comportano un incremento dei consumi di fonti fossili, perché per produrre in forma combinata energia elettrica e calore (trasformabile in fresco, d’estate, mediante pompe di calore ad assorbimento) utilizzano pressoché la stessa quantità di combustibile che attualmente si utilizza solo per riscaldare gli ambienti. Già oggi, per fare un esempio, gli ospedali, che sono grandissimi consumatori di energia, per motivi di sicurezza devono avere gruppi elettrogeni in modo da autoprodurre energia elettrica in caso di interruzioni sulla rete. Un investimento a fondo perduto che non rende nulla, perché i gruppi elettrogeni si usano solo in casi eccezionali (e, proprio per questo, quando devono essere messi in funzione pongono qualche problema). Se invece si dotassero di cogeneratori, l’investimento si ripagherebbe in tempi brevi con l’energia elettrica e termica prodotta. Se la potenza dei cogeneratori viene tarata sui consumi di energia termica, si produce anche un surplus di energia elettrica da cedere alla rete. Per il bilancio delle ASL ciò comporterebbe una forte riduzione di costi (che si potrebbe tradurre in una riduzione dei tickets per gli utenti). Per il sistema energetico nazionale una minore dipendenza dall’estero. Per la bilancia dei pagamenti una riduzione delle importazioni di petrolio. Per la rete una maggiore capacità di riattivarsi tempestivamente in caso d’interruzione imprevista. Per l’atmosfera, una riduzione delle emissioni di CO2. Cogeneratori di dimensioni più grandi e più piccole (dall’ordine di qualche megawatt a un minimo di 2 chilowatt elettrici) possono essere installati al posto delle caldaie in tutte le utenze industriali, commerciali e civili, pubbliche e private. E ugualmente si può fare con le fonti alternative alle fossili (biomasse, fotovoltaico, eolico, idroelettrico) che proprio nella dimensione medio-piccola e nell’autoconsumo manifestano tutte le loro potenzialità sia in termini di riduzione dell’impatto ambientale, sia in termini di rapporto costi-benefici. Se un black out notturno, al contrario di quanto proclamano Presidente, Ministro e Scienziato, non può per definizione essere causato da una insufficienza strutturale di potenza elettrica ma solo da una carenza contingente dovuta a cause impreviste, nelle ore di punta un rischio permanente di black out può crearsi invece quando la domanda di picco supera l’offerta di energia elettrica. Ma anche in questo caso, contrariamente a quanto proclamano Presidente, Ministro e Scienziato, la scelta di incrementare l’offerta costruendo nuove centrali non solo non è l’unica possibile, ma è quella meno evoluta tecnologicamente. Se questa fosse stata la risposta storicamente data alla crescita dei consumi di energia elettrica nell’ultimo secolo, le fonti fossili si sarebbero già esaurite da tempo e gli incrementi delle emissioni di CO2 avrebbero già irreversibilmente mutato il clima terrestre. Lo straordinario progresso scientifico e tecnologico avvenuto nel settore dell’energia è stato caratterizzato dalla crescita dell’efficienza energetica, cioè dalla capacità di ottenere rendimenti sempre maggiori dalle fonti. Le prime centrali termoelettriche avevano un rendimento del 3 per cento. Da 100 unità di energia chimica sotto forma di combustibili fossili riuscivano a ricavare appena 3 unità di energia elettrica e ne sprecavano 97 sotto forma di calore inutilizzato. Oggi il rendimento medio delle centrali Enel è del 38 per cento, i cicli combinati raggiungono il 55 per cento, le celle a combustibile il 66 per cento. Il consumo di una lampada a incandescenza equivale a quello di 6 lampade ad alto rendimento di pari voltaggio. All’inizio del terzo millennio, l’avvicinarsi dell’esaurimento delle fonti fossili, i mutamenti climatici in corso, la crescita demografica e lo sviluppo economico impetuoso di alcuni paesi densamente popolati nelle prime fasi della loro industrializzazione, come la Cina e l’India, impongono di accrescere ulteriormente l’efficienza energetica. Il progresso dell’umanità non può realizzarsi se non attraverso sempre maggiori progressi nella capacità di ridurre al minimo la quantità di energia che si disperde inutilizzata durante i processi di trasformazione. Alla crescita dei consumi energetici non si può più rispondere incrementando l’offerta, ma incentivando tutte le innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre la domanda. Non con la costruzione di nuove centrali, ma migliorando l’efficienza di quelle esistenti. Non più con grandi impianti, ma con una miriade di piccoli e medi impianti finalizzati all’autoconsumo e collegati alla rete in modo da riversarvi le eccedenze quando la produzione supera il consumo e di attingervi quando il consumo supera la produzione. Il progresso, anzi il futuro dell’umanità, dipenderà dalla moltiplicazione dei mengozzi, che non si accorgono dei black out notturni e con la somma dei loro piccoli contributi diffusi impediscono i black out diurni, accelerando nel contempo la transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili.