Gli scarti della Raccolta? APAT garantisce il 15%
Intervista a Attilio Tornavacca, comitato scientifico Legambiente
09 November, 2006
<b>Dott Tornavacca, a Torino la differenziata sembra essere indicata come una beffa: 22% della plastica raccolta torna in discarica, così come il 40% del compost. Il Cdr non ha mercato, così come il compost, che si vende a fatica. Le risulta?</b>
Partiamo dal compost. Il 40% di scarti è un dato che non sta né in cielo né in terra, in situazioni standard. Negli impianti che presentano una gestione di buon livello il livello di scarti arriva al massimo al 10 % con un 30 -35 % di perdite di processo (l'acqua contenuta negli scarti di cucina evapora durante il processo). Il livello di scarti dipende anche dalle modalità di raccolta differenziata dell'umido: con la raccolta stradale e di prossimità (come quella adottata sncora nella gran parte del Comune di Torino) la percentuale di materiali estranei è molto elevata (10-30%) perché non è possibile responsabilizzare gli utenti (che spesso usano questi bidoni come normali cassonetti per rifiuti indifferenziati sapendo di non poter essere rintracciati e multati) mentre con la raccolta domiciliare il livello di impurezze scende al 2-5 % poiché gli utenti sanno di poter essere contrallati e, al limite, multati se conferiscono materiali impropri.
<b>E per quel che riguarda la plastica?</b>
Sul discorso della plastica dobbiamo essere realisti. Secondo l'APAT (l'Agenzia nazionale per la protezione dell'Ambiente e del territorio) la percentuale di scarto è pari al 15 % del totale raccolto (vedi cap. 3.5 del rapporto). Va però tenuto presente che in Italia viene ammesso anche il recupero energetico di una quota parte della plastica da RD (attualmente il recupero energetico si attesta sul 50% del totale). All'estero (in particolare in Austria e Germania) si punta soprattutto alla minimizzazione degli imballaggi in plastica anche attraverso sistemi di cauzionamento per ridurre l'uso di imballaggi in plastica di cui si potrebbe fare a meno.
<b>Arriviamo al CDR… Esiste davvero la difficoltà alla vendita?</b>
Dipende dal CDR… Anche sul CDR dobbiamo far chiarezza. Il DM del 2 febbraio 1998 stabilisce le caratteristiche per poter definire il CDR tale. Ma si tratta di una qualità base, che effettivamente non ha mai fatto presa sul mercato: troppa umidità (28%) e scarsa capacità calorifica (15500 kJ). Un’industria che volesse passare da un combustibile tradizionale al CDR di qualità base, troverebbe molti problemi. Fondamentalmente bisognerebbe avere un impianto progettato ad hoc. Nel 2003, su richiesta delle aziende, è stata approvata la norma UNI 9903, che stabilisce invece quali siano le caratteristiche del CDR ad alta qualità. Variano di molto i valori: dal 26% di umidità si passa al 10%; dai 15500 kJ di capacità calorifica si passa ai 20000 kJ (appena inferiore a quella del carbone).
Ecco, questo CDR ha mercato, eccome. Le aziende sono disposte ad acquistarlo, e molte lo fanno. Da centrali ENEL (Venezia) a molti cementifici (ad es. quello di Robilante), fino a quelle agricole: tutti i più grossi produttori di riso usano il CDR per produrre il vapore necessario alla precottura del loro prodotto.