Viaggio lungo il Po
Topi e rifiuti, è il Po in città; Il Po seccato dai campi; Troppi prelievi selvaggi nel Po – L’inchiesta di Leonardo Bizzarro da La Repubblica
16 April, 2007
<b>10.04.2007
Topi e rifiuti, è il Po in città</B>
<i>Gli esperti: 'Ma il cromo è poco ed è più pericoloso delle pantegane e dei sacchetti' Se a monte del capoluogo i valori sono ancora contenuti a valle diventano alti Un tempo era peggio, però il combinato disposto veleni-siccità non aiuta I dubbi dell' ittiologo: 'Certi interventi sull' alveo penalizzano la biodiversità' Negli ultimi 50 anni il fiume si è accorciato di 10 Km e il fondo si è abbassato di tre metri</i>
Di corsa sull' argine sinistro del Po, tra gli alberi del parco del Valentino. Sono tanti ad allenarsi, una settimana prima della Maratona di Torino. Tra il ponte Balbis e l' Isabella zampettano tra i piedi due grosse pantegane, che si infilano presto in un buco e se ne tornano a pelo d' acqua. Pochi se ne accorgono, impegnati a faticare nelle ripetute. E comunque tutti corrono più veloci dei ratti. Però non è un buon biglietto da visita per il gran fiume nel suo tratto cittadino. «Sono d' accordo - risponde Giovanni Negro, responsabile del monitoraggio delle acque nell' ufficio di Pianificazione delle risorse idriche della Regione - non è bello, ma è difficile trovare una metropoli senza topi. E le assicuro che la responsabilità non è della qualità delle acque». Abbiamo lasciato nel Cuneese un fiume povero d' acqua, ridotto spesso a un rigagnolo. Ivan Borroni, ittiologo, abita a Centallo e si occupa da quasi quarant' anni di ecologia acquatica. Lui non è troppo ottimista. «L' artificializzazione e la banalizzazione dell' alveo - ci scrive - compromettono la biodiversità degli organismi acquatici che soli garantiscono il processo di autodepurazione». è il cosiddetto processo di «smeandrizzazione». In pianura il fiume scende con ampie curve serpeggianti, ma in caso di forti piene tende a erodere il margine di terra tra meandri successivi, isolando così un ramo abbandonato paludoso, una «lanca». Spiega Marco Pozzi, accompagnatore naturalistico, istruttore di arrampicata e gestore del rifugio Levi in alta Valsusa, autore di una guida agli Itinerari nel Parco del Po per il Cda di Torino, che «la lanca funge da vero e proprio filtro biologico in caso di piene. Le arginature delle rive, le bonifiche, le escavazioni di ghiaia impediscono il formarsi di nuove lanche. Nell' ultimo mezzo secolo la lunghezza del fiume tra Cardé e Moncalieri si è ridotta di dieci chilometri e il fondo si è abbassato di tre metri. L' uomo ha reso la natura incapace di autodeterminarsi». Per questo, fra le aree protette nel tratto torinese del Po sono inserite le lanche che ancora resistono, quelle di San Michele e di Santa Marta. Che il fiume prima o poi cancellerà, non c' è speranza. Torniamo in città, negli uffici delle Risorse idriche. A parlare di pantegane: «Distinguiamo lo sporco dall' inquinamento - precisano Negro e il collega Matteo De Meo - I sacchetti e le pantegane lei li vede, il cromo disciolto nell' acqua no. E questo è più pericoloso di quelli». Le carte di qualità ambientale parlano chiaro. Se a monte del capoluogo piemontese si può ancora discutere sulla presenza più o meno massiccia di veleni, a valle i valori sono decisamente alti. Un tempo era peggio, il fiume riesce ancora a risollevarsi, prima di uscire dalla regione - per ricevere poco oltre il confine la mazzata definitiva - ma il combinato disposto inquinamento-siccità non aiuta. E la «Torino città d' acque», come recitava un vecchio progetto dell' assessorato all' Ambiente del Comune? Quella resiste, spiega il direttore delle Risorse idriche, Salvatore De Giorgio. Dalle Vallere fino ai Murazzi il Po sembra un fiume d' altri tempi. Non per il colore, né per la puzza, ma la portata è buona: «Certo, grazie alla diga Michelotti, che trattiene le acque subito oltre il ponte Vittorio Emanuele. Le ragioni? Estetiche, perché un fiume che scorre in una città non può essere in secca, e di ausilio alla navigazione. Se non ci fosse la traversa a mantenere alto il livello, Valentino e Valentina, i due battelli turistici, sarebbero posati sul fondo». Nemmeno kayakisti e canottieri avrebbero di che vogare. Non che questo aiuti il fiume a essere più pulito. La diga Michelotti alza il livello sugli idrometri, ma rallenta il flusso e così il processo di autodepurazione: «Se io trattengo l' acqua - aggiunge De Giorgio - il rischio è l' eutrofizzazione, con la crescita abnorme di alghe. Quello che succede alla fine del corso, nel mare Adriatico. E altri problemi si aggiungono. La parte solida che gli impianti di acque bianche immettono nel fiume attraverso i tombini. Di fianco al ponte Isabella, quando piove, scende acqua in quantità, ma anche ghiaia dilavata dall' asfalto. Per questo sul percorso dei battelli occorre periodicamente far scendere una zattera che scavi sul fondo». Ma il Po, checché si possa pensare, non rischia di morire passando da Torino. è vero, qualche raro quartiere di periferia non ha ancora una rete fognaria a regola d' arte, i liquami si scaricano ancora nei pozzi neri. Ma non sono casi frequenti. Va ben peggio una volta superata l' area più urbanizzata. In bicicletta sulla via ciclabile che percorre gli argini verso San Mauro è uno spettacolo desolante. La scarsità d' acqua mette a nudo ammassi di immondizie, sui tronchi che affondano nel fango sono appesi gran pavesi di borse di plastica. I veleni sono più pericolosi dei rifiuti da discarica, ma qualche ansa più a ovest cominciano massicciamente anche quelli. Sono gli scarichi della zona industriale torinese. Non che finiscano direttamente nel fiume, quella è un' epoca lontana, ma è la terra, ormai imbevuta, che li cede all' acqua e l' avvelena. Quanto è lontana La bella estate di Pavese, che andava «in Po, un' ora o due, al mattino. Mi piaceva sudare al remo e poi cacciarmi nell' acqua fredda, ancora buia, che entra negli occhi e li lava. Le volte che sudavo sull' acqua, mi restava poi per tutto il giorno il sangue fresco, rinvigorito dall' urto col fiume». Che urto sarebbe, oggi. (continua)
<b>12.04.07
Il po seccato dai campi</B>
<I>I dati della Regione: 'Ogni anno 6 miliardi di metri cubi d' acqua per l' agricoltura' 'Il 10% di questo uso è pari a quello di tutti i piemontesi e dell' industria insieme' Il numero due di Pro Natura: 'Va ripensato l' intero sistema di irrigazione delle colture' </i>
In fondo alla strada che una volta era asfaltata e oggi è contorta dalle piene, il ristorante Manuela è chiuso per turno. «Attenzione ai cani feroci e alla vigilanza armata», intima un cartello, ma in giro non c' è nessuno, una sbarra di ferro chiude il sentiero sabbioso che taglia le erbe alte. è il tramonto quando arriviamo alla fine del viaggio sul grande fiume, questo è il confine piemontese del Po. L' argine è a ridosso del ristorante, oltre si stende asciutta la golena larga un centinaio di metri, dove le piene trovano il loro sfogo, e finalmente l' acqua, infestata da nugoli di moscerini. Scende a est senza fretta, l' odore è di piante macerate, apparentemente non sei investito da zaffate di puzza chimica. Lo confermano i dati sullo stato ambientale: ai nostri vicini lombardi consegniamo un fiume in discrete condizioni di salute, ci penseranno loro poi ad ammalarlo. L' iniezione di veleni del Lambro, poco prima di Piacenza, è una di quelle botte da cui non si risolleverebbe nessuno, figuriamoci un fiume smagrito come questo. Perché il guaio, arrivati alla fine del Piemonte, non è la qualità dell' acqua, ma la quantità largamente insufficiente. E se alla siccità si aggiungono prelievi fatti senza un disegno complessivo, appellandosi a concessioni rilasciate chissà quando, il risultato è un fiume a rischio nonostante la pagella più che sufficiente di chi si occupa di lui. «Il Po viene spolpato», esemplifica bene Emilio Soave, ex presidente del tratto torinese del parco e vicepresidente di Pro Natura. «Se lei un mese fa avesse cercato un titolo per la sua inchiesta, quello giusto sarebbe stato "Scusi, dov' è il Po?". Per fortuna è arrivata in extremis qualche precipitazione, ma non si può dire che la situazione sia risolta. E' l' intera agricoltura che dev' essere ripensata. In questo momento storico l' irrigazione per sommersione non ce la possiamo più permettere. E' stato un sistema agricolo bellissimo, con le bealere che una volta alla settimana attraverso i chiusini allagavano la campagna secondo turni stabiliti da generazioni, ma il Po non ce la fa più. E nemmeno gli altri fiumi. Bisogna scegliere altre soluzioni, l' aspersione o meglio ancora l' irrigazione goccia a goccia». Illusioni? Forse, ma i dati parlano chiaro. Arrivano come sempre dall' ufficio regionale delle Risorse idriche: «Il Piemonte ha una disponibilità annua di venticinque miliardi di metri cubi d' acqua - enumera il direttore Salvatore De Giorgio - Undici di questi spariscono, scorrono senza essere utilizzati, penetrano nel sottosuolo o evaporano. Dei restanti quattordici, sette rimangono nei fiumi. Ce ne restano sette: mezzo miliardo è destinato a fini idropotabili, altrettanto va al settore industriale. Sei miliardi, provi a scriverlo, sei miliardi li sfrutta l' agricoltura. Significa che qualsiasi risparmio fatto in casa è nulla, se non da un punto di vista del rispetto per una risorsa preziosa. Ma significa pure che, se l' agricoltura evita di sprecare il 10 per cento, è come se l' intera popolazione piemontese, più l' industria, non avesse consumato una goccia. Ricordiamocene, quando nei mesi estivi cominceranno i problemi. Che non riguarderanno, sia ben chiaro, il fabbisogno domestico». Incrociare il Po nel tratto vercellese e alessandrino, dai grandi ghiareti di Verrua Savoia fino a Isola Sant' Antonio, è un susseguirsi di giravolte su arterie secondarie. A metà strada, Casale Monferrato, su un fiume ampio come un lago e con la stessa velocità, una coppia di romeni è scesa in bicicletta sul greto per pescare: «Prima di sera qualcosa portiamo a casa e la cena è assicurata». Nessun timore? «E di che?». I timori sono degli addetti ai lavori. Non per l' inquinamento: le leggi funzionano, almeno lungo il fiume, il mancato rispetto è questione di singoli, o di singole aziende. L' ittiologo Ivan Borroni, che già ci ha raccontato il «suo» Po più a monte, scuote invece la testa su un' acqua di cui in troppi vogliono appropriarsi. «Dopo l' alluvione del '94 si è scatenata una corsa a quella che chiamano messa in sicurezza. E' un affare miliardario. Tutte le autorità di bacino evidenziano che il problema è rallentare il flusso, lasciando il fiume a divagare nella pianura, e cosa si fa? Lo si rettifica costringendolo negli argini e si continua a sottrarre ghiaia dagli alvei. La velocità di percorso è clamorosamente aumentata: dove una volta ci si mettevano venti ore, ora si percorre un tratto di fiume in otto. Le strade asfaltate e lo stato superficiale del terreno, sempre più impermeabile, fanno il resto. Dall' altra parte c' è un prelievo d' acqua ormai senza controllo. Nel Po, ma soprattutto nel sistema degli affluenti, dove alla captazione per il grande idroelettrico, dell' Enel, si aggiunge adesso quella per le piccole centraline private, autorizzate senza alcun piano d' insieme». Il disegno generale, ecco quello che manca a giudizio di tutti, alla fine. «Il canale Cavour - spiega il direttore del parco del Po vercellese-alessandrino, Dario Zocco - preleva 110 metri cubi al secondo di acqua dal Po, per le necessità della risicoltura, indipendentemente dalla portata. Il riso è un' eccellenza della zona, nessuno lo mette in dubbio, ma siamo sicuri che siano così vocate tutte le aree dove lo oggi si pianta? Di fronte alla carenza d' acqua nella quale viviamo non sarebbe il caso di ripensare un' agricoltura troppo idroesigente?».
<b>15.04.2007
Troppi prelievi selvaggi nel Po</B>
<i>Petrini: mobilitiamo la gente perché rivendichi i diritti del fiume. Come università di Pollenzo organizzeremo un viaggio lungo il corso' 'Vanno difesi anche gli ecosistemi, non soltanto gli interessi dei viventi' 'Solo una governance può garantire una gestione corretta e sistematica' La ricostruzione che Olmi ha fatto nel suo film della comunità che vive lungo le rive è un po' forzata: tanta socialità è ormai morta alla sorgente a isola sant' antonio in città le tappe</i>
Le acque consegnate ai nostri vicini lombardi però non sono avvelenate, lo sostiene chi ci vive dentro, dai canottieri ai pescatori, lo confermano le analisi dell' ufficio Risorse idriche della Regione. «Per quello che riguarda la nostra parte, quella piemontese, il problema maggiore, sono d' accordo, non è l' inquinamento, ma la scarsità. Che non è determinata solo dall' annata poco piovosa, ma dai prelievi selvaggi. Per usi agricoli, e non solo, abbiamo una sottrazione dell' acqua del Po che non è compatibile con le disponibilità attuali. A sommare però la scarsezza d' acqua a un inquinamento sia pur ridotto, il risultato è ugualmente preoccupante. Il vostro reportage lo ha ben evidenziato. Poi è vero che il disastro inizia quando entriamo in Lombardia e imbarchiamo l' Olona e il Lambro. Per non parlare della sponda mantovana, con l' allevamento dei suini». Torniamo a monte, le responsabilità sono degli allevamenti, pure nel Cuneese, ma non è che l' agricoltura non abbia le sue colpe. «Questo è sicuro. Le tecniche di irrigazione attuali ormai non sono più sostenibili. In più tutta l' area Carmagnolese, definiamola così, era fortemente caratterizzata dalla coltura del grano. Oggi per il 90 per cento è stata sostituita dal mais, che ha un' esigenza d' acqua di cinque-sei volte superiore a quella di altre colture. In più - questo me lo dice il professor Bevilacqua, uno dei maggiori esperti dell' agricoltura italiana - non si selezionano nemmeno più le specie che consumano meno acqua. Una volta c' era questa attenzione». Che destinazione ha il mais? «Mica per fare polenta. Lo richiedono gli allevamenti e i contadini si sono adeguati. Forse, nel quadro di un ripensamento generale, bisognerebbe abituarsi anche a consumare meno carne». Tra gli esperti, lo zootecnico Capaldi sostiene che il ritorno alle razze bovine piemontesi, anziché le ormai onnipresenti frisone, potrebbe significare un minor impatto: che ne pensa?. «Tutto si tiene. La frisona produce quaranta litri di latte al giorno, e di questo c' è una sovrapproduzione. Un ritorno alle razze autoctone penso che sarebbe una scelta intelligente. Quando io dico che ormai c' è bisogno di una governance, sostengo esattamente quello. Tutte queste cose intrecciate devono diventare patrimonio collettivo, non possono essere affidate all' uno o all' altro organismo di controllo, senza collegamenti fra loro». Lo hanno detto, nel nostro viaggio lungo il fiume, in molti. Pensare che le risorse idriche siano infinite, trovarsi di fronte a una coltura invasiva di mais, concedere senza alcun disegno le centraline private sugli affluenti, vuol dire avviarsi alla rovina. «Non è finita. Sono stato stimolato dal presidente della Regione Emilia-Romagna, che rileva come ci sia, soprattutto negli affluenti, un forte prelievo idrico per l' innevamento delle piste da sci. In un' annata come questa in cui si è dovuto pompare a manetta, acqua se n' è dovuta sprecare». E' anche vero che quella neve poi si fonde. «Ehh, ma prima che l' acqua finisca nelle falde ce ne vuole di tempo. Sono almeno tre-quattro anni. Poi, la Svizzera ha vietato l' uso di certi tipi di additivi, in Italia non ho ancora sentito nessuna Regione che si sia mossa». Son tutti temi che voi, come Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, nel prossimo anno andrete a verificare di persona. «Sì, 180 studenti ripeteranno il viaggio fatto da Repubblica nei giorni scorsi e proseguiranno fino al delta. E' un' operazione che dovrebbe sensibilizzare fortemente le popolazioni rivierasche, portando la gente a rivendicare i diritti del fiume. Non ci sono solo i diritti dei viventi, ma anche quelli degli ecosistemi e del Po in particolare. Questo è lo scopo evocativo di questo viaggio». A proposito di evocazioni, tra i vari argomenti di meditazione dell' ultimo film di un regista a lei caro, Ermanno Olmi, c' era il rispetto per il fiume. E la vita lungo le sue rive. Un aspetto che sembra scomparso, a scendere sulle rive piemontesi. «Non vorrei che quella di "Centochiodi" fosse una forzatura di Ermanno. La ricostruzione di quella comunità attorno al fiume non lo so quanto esista ancora. La testimonianza che ho io ad esempio del tratto parmense è proprio di memoria: "Ah, mi ricordo quando si andava al fiume". Tanta socialità del Po è morta». Se n' è andata con il fiume avvelenato? «Beh, il contesto era quello di chi ci passava una giornata intera. Mangiava, si bagnava, giocava~ in certi posti sarebbe davvero mefitico. Noi stiamo adesso raccogliendo testimonianze. Ce n' è una bellissima di un contadino che ha vissuto tutta la vita in riva al Maira, a cinque chilometri dove confluisce nel Po. Quando si batteva il grano, ci ha raccontato, alla fine tutti nudi si faceva il bagno a Maira». Oggi certamente non accadrebbe. «Certo che no, vanno a fare la doccia in casa, se ancora hanno grano da battere. Diceva addirittura che le donne nel Maira facevano il bidet. Portava l' esempio di un fiume che era funzionale addirittura all' igiene personale. Dove lo trovi oggi?».