La sovapproduzione alimentare e' il problema, piu' che i rifiuti alimentari
03 May, 2016
I rifiuti alimentari e lo spreco di imballaggi sono un sintomo del problema che è la sovrapproduzione di cibo. Un’analisi di alcuni dati di fatto che arrivano da più fonti confermerebbe questa ipotesi e renderebbe necessario un diverso approccio del problema basato su un sistema produttivo agro-alimentare sostenibile che non produca più sprechi.
L’attenzione verso lo spreco di cibo definito definito recentemente da Vytenis Andriukaitis, commissario europeo alla Salute e alla sicurezza alimentare, una tragedia economica ed ambientale è
aumentata. Grazie ad alcune iniziative europee di grande eco mediatico
lo spreco alimentare viene visto per quello che è: una problematica
globale che gioca un ruolo chiave nella riduzione delle emissioni di gas
serra.
E’ infatti l’attività agricola che ha l’impatto maggiore a livello di emissioni: con circa 6,2 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti, si posiziona al primo posto per emissioni di gas serra(pari al 20% delle emissioni del 2010) prima dei comparti dell’energia e dei trasporti . Secondo lo studio “Food Surplus and Its Climate Burdens” del Potsdam Institute for Climate Research (PIK)
che per la prima volta fornisce le proiezioni complete dello spreco di
cibo dei Paesi di tutto il mondo, calcola che solamente le emissioni
correlate potrebbero arrivare al 2050 a 2,5 miliardi di tonnellate di Co2 equivalenti. (Un articolo di Regioni e Ambiente sullo studio si può leggere qui. )
Una follia se consideriamo che in Europa stiamo distruggendo la
biodiversità con uno sfruttamento estremamente intensivo del territorio;
tra insediamenti abitativi, infrastrutture e produzione industriale e
agricola la percentuale di suolo sfruttato arriva all’80%.
EATING PLANET
Nel 2050 la crescita demografica arriverà a oltrepassare i 9 miliardi di persone con una richiesta di cibo che crescerà del 56%.
In questo scenario di possibile aumento della produzione alimentare – e
di conseguente impatto ambientale – potrebbe sembrare difficile
mantenere il riscaldamento globale entro i 2˚C, obiettivo prefissato lo
scorso dicembre durante la Conferenza di Parigi (COP21). Se si pensa che
per sfamare il crescente numero di persone nel mondo occorre produrre
di più, non è questa la soluzione. In realtà, attualmente sprechiamo un
terzo della produzione globale di alimenti, che equivale a quattro volte
la quantità necessaria a dare da mangiare a 795 milioni
di persone denutrite nel mondo, oltre ad avere una forte ricaduta
sull’ambiente perché mentre il cibo si decompone rilascia gas metano, un gas serra 20 volte più potente dell’anidride carbonica.
Questo il messaggio arrivato nella giornata della Terra lo scorso 22 aprile dalla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition BCFN che ha recentemente presentato la seconda edizione di “Eating Planet. Cibo e sostenibilità: costruire il nostro futuro”. Effettivamente ci stiamo divorando la terra e anche l’ Italia non scherza visto che sprechiamo il 35% di prodotti freschi (latticini, carne, pesce), il 19% del pane e il 16% di frutta e verdura prodotti. Uno spreco che porta con se una perdita di 1.226 milioni di m3 l’anno di acqua, e l’immissione nell’ambiente di 24,5 milioni di tonnellate CO2 l’anno. Secondo i dati diffusi ieri dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile nel suo ultimo Climate report, presentati dall’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, nel 2015 le emissioni di gas serra in Italia sono aumentate di circa il 2,5%, circa 3 volte tanto la crescita del Pil (che ha segnato un +0,8%) in controtendenza rispetto ad altri paesi.
Se si considera che la richiesta di cibo aumenterà del 56%, che il 25% dei suoli è gravemente danneggiato e il 30%
dei terreni coltivabili è divenato improduttivo negli ultimi 40 anni
(dati FAO) è evidente che serve rivedere l’intero sistema a livello
globale.
Per sfamare un pianeta che conterà al 2050 oltre 9 miliardi di persone e mitigare la crisi climatica l’BCFN suggerisce
che serve partire da un cambiamento nelle abitudini alimentari.
L’alimentazione più sostenibile, e al tempo stesso più salutare, è
quella prevalentemente vegetariana. Limitando il consumo di proteine
animali a sole due volte alla settimana e facendo spazio a cereali e legumi, si possono risparmiare fino a 2.300 g di CO2 al giorno. Si parla di una riduzione di emissioni di CO2 all’anno per persona di 750 kg. Due recenti studi internazionali arrivano a conclusioni simili. Il primo pubblicato dal World Resources Institute
stima che riducendo il consumo di carne rossa si arriverebbe a ridurre
le emissione a livello pro capite di una percentuale tra il 15 e il 35%. Qualora si abbracciasse una dieta vegetariana le emissione verrebbero ridotte del 50%.
Il secondo paper pubblicato su Nature Communications,
(Exploring the biophysical option space for feeding the world without
deforestation) evidenzia la stretta relazione tra consumo di carne e
deforestazione. Sulla base di un’analisi di circa 500 modelli di
alimentazione, e relativi scenari di produzione a livello
internazionale, lo studio ha identificato circa 300 modelli in grado di
nutrire la popolazione globale nel 2050 senza determinare
l’abbattimento di nuove foreste. Si tratta di modelli che prevedono
un’alimentazione da prevalentemente a completamente vegetariana.
In un recente rapporto segreto della Nestlé pubblicato da Wikileaks, la multinazionale rimarca che se non cambiamo le nostre abitudini alimentari, gli esseri umani potrebbero esaurire tutte le risorse di acqua potabile del pianeta entro il 2050.
Nonostante l’allarme lanciato sul problema da istituzioni di alto
livello come la Fao, Kip Andersen, ambientalista e regista indaga nel
suo documentario Cowspiracy sul perchè le associazioni ambientaliste tutto sommato ignorino
gli effetti dell’industria “più distruttiva del pianeta” con il
risultato di far mancare uno stimolo importante per influenzare le
politiche dei governi.
Vytenis Andriukaitis ha recentemente condannato
senza mezzi termini il fenomeno degli sprechi alimentari e annunciato
che verranno inserite delle linee guida ad hoc per l’UE nel pacchetto di misure per l’economia circolare che si discuterà a Bruxelles nei prossimi mesi.
I 28 Paesi membri dell’Unione secondo i dati forniti dal commissario sprecano alimenti per circa 100 milioni di tonnellate ogni anno. Le contromisure prese dai paesi membri in ordine sparso e spesso legate ad iniziative isolate (come la legge anti-spreco varata dal parlamento francese) non sono sufficienti.
L’obiettivo di dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030 che rientra nel secondo dei 17 SDGs ( Sustainable Development Goals) approvati dalle Nazioni Unite per i prossimi 15 anni, può essere raggiunto solamente attraverso interventi articolati e coordinati lungo tutta la filiera alimentare: dalla raccolta nei campi ai vari passaggi successivi della catena di produzione e distribuzione sino ad arrivare alla dimensione domestica.
INIZIATIVE ANTI SPRECO
Diverse iniziative europee mirate a ridurre lo spreco di cibo
-a cura di vari soggetti- hanno affrontato negli ultimi anni alcune
delle fasi in cui avviene lo spreco alimentare: dal campo all’utente
finale. Al tempo stesso, oltre ad aver dichiarato il 2014 come l’anno
europeo contro lo spreco alimentare, c’è stato un susseguirsi di
convegni e sottoscrizione di protocolli e alleanze.
Ciò nonostante i rifiuti alimentari crescono in modo drammatico e continuano ad essere un problema irrisolto.
Sarà interessante poter verificare se i provvedimenti contenuti nella legge francese contro lo spreco alimentare
riusciranno a contrastare l’odiosa pratica giornaliera che si
verifica nella maggior parte dei punti vendita della piccola e grande
distribuzione che buttano alimenti ancora edibili. Un’analisi appena compiuta da IPLA sui rifiuti alimentari conferiti ad un impianto di compostaggio nel vercellese ha rilevato che quasi la metà, proveniente da supermercati, costituita da latticini, ortofrutta e prodotti da forno poteva essere recuperata.
Se una maggiore attenzione ai rifiuti alimentari è da ritenersi
positiva, per vincere la battaglia contro lo spreco alimentare serve
andare oltre cambiando anche l’approccio metodologico e concettuale sin
qui adottato.
SPRECO DI CIBO SINTOMO DI UNA PRODUZIONE ECCESSIVA
E se invece lo spreco di cibo non fosse il problema ma il sintomo di una sovrapproduzione di cibo ?
Se così fosse non sarebbe possibile apportare reali cambiamenti in
termine di riduzione sino a quando non si governerà l’intero sistema a
partire dalla fase produttiva. Le iniziative che si stanno attuando sono
difatto prevalentamente ex post, poiché agiscono su un effetto
collaterale- che è la creazione di troppi rifiuti-, senza intervenire
sulla causa del problema. In linea con quanto avviene d’altronde nella
gestione complessiva dei rifiuti, purtroppo.
Questo interrogativo è stato sollevato qualche tempo fa da Joris Lohman di Slow Food Olanda in un suo articolo apparso nella sezione ambiente del media olandese Trouw. Lohman ha ripreso nel suo post i contenuti di un articolo circonstanziato e ricco di referenze bibliografiche scritto dal Dr. Jonathan Latham lo scorso anno e pubblicato su Independent News Science.
L’articolo suggerisce che è la sovrapproduzione che ha minacciato ad
oggi l’approvvigionamento di cibo, assorbendo inutilmente troppe risorse
per poi sprecarle. Contrariamente a quanto viene spesso affermato, non
è vero che non ci sia abbastanza cibo. L’India ha cibo in abbondanza così come non manca il cibo in Sud America. Negli Stati Uniti, Australia ed Europa, non c’è mai stato così tanto cibo. Anche se la Cina dove impegnarsi per sfamare i suoi abitanti è pur sempre in grado di esportare cibo. Anche gli esperti della World Food Bank arrivano alla conclusione che viene attualmente prodotto abbastanza cibo per sfamare 14 miliardi di persone – molto, molto di più di quanto sia necessario. Le conseguenze di questa produzione alimentare eccessiva sono il crollo dei prezzi che rimangono bassi, il cibo che conseguentemente perde valore e mette in piedi un sistema che produce spreco.
SERVE PIU’ CIBO ?
“Abbiamo bisogno di produrre più cibo” secondo Latham è
una mistificazione concepita e mantenuta in vita dal settore
dell’agro-industria e delle imprese collegate. Latham suggerisce di fare
una ricerca sui siti aziendali e sul web per trovare la conferma di
come le stesse affermazioni vengano ripetute come un mantra nelle
comunicazioni da parte degli addetti alle PR delle maggiori aziende del
settore. Latham rileva come questa strategia comunicativa basata sullo
spauracchio della crisi alimentare sia funzionale ed efficace rispetto
all’obiettivo: di far credere cioè all’opinione pubblica e ai governi
che sia necessario più cibo per combattere la fame nel mondo, e che siano soprattutto le grandi aziende alimentari in grado di fornire le quantità necessarie al miglior prezzo.
Questa tattica ha il supporto delle multinazionali della chimica e del
settore OGM che hanno l’interesse significa dare il via libera all’uso
massiccio ed indiscriminato di OGM e pesticidi. Le conseguenza sono da
tempo sotto gli occhi di tutti: piccoli coltivatori ridotti alla fame
che fuggono dai campi, spesso convertiti in colture per biocarburanti,
per riversarsi nelle periferie fatiscenti delle città.
Anche se il progetto di industrializzazione della produzione alimentare
globale non è ancora completo, sempre secondo Latham, gli effetti
causati ad oggi ad un pianeta minacciato dal riscaldamento climatico che
deve ridurre drasticamente le sue emissioni di Co2 sono già
irreparabili.
Il settore dell’agro-industria è da ritenersi responsabile di diversi
misfatti ambientali: della maggior parte della deforestazione, di gran
parte delle emissioni di gas a effetto serra, degrado di fiumi e
torrenti, perdita di habitat naturali, peggioramento dell’inquinamento
marino e distruzione della barriera corallina, peggioramento dell’
insicurezza alimentare, enormi problemi di salute per l’uomo. E’ inoltre
la maggior causa dello sfruttamento dell’acqua, dell’emigrazione e
così via …. Pertanto, non è esagerato dire che se non si inverte questo
processo di industrializzazione agricola il nostro pianeta sarà reso
invivibile per gli organismi multicellulari. Per non parlare, oltre alle
conseguenze socio-ambientali, dei diversi miliardi che il settore
costa ogni anno, tra sovvenzioni incassate e costi che vengono invece
esternalizzati su ambiente e comunità.
Latham si rivolge nell’articolo a tutti i movimenti, organizzazioni e
governi che vogliono combattere lo spreco alimentare e vedere il
diffondersi un’agricoltura sostenibile, per invitarli ad attivarsi in primis per sfatare questa menzogna.
CONSEGUENZE SULLA PRODUZIONE E GESTIONE DEGLI IMBALLAGGI
La quantità degli imballaggi immessi in commercio è in aumento
a livello globale per cause come un maggior consumo di cibi pronti e
alimenti confezionati, l’aumento della popolazione della classe media
nei paesi emergenti, e da una crescente urbanizzazione. Secondo uno
studio condotto da AXA il 60% della popolazione mondiale si concentrerà nelle città nel 2030. Secondo una simulazione effettuata nello studio Stemming the Tide (1) sulla base di dati della Banca Mondiale e dell’Unep la produzione di rifiuti prodotti a livello procapite negli insediamenti urbani è superiore del 40%
rispetto a quella prodotta nelle aree rurali. Per quanto riguarda la
produzione di rifiuti plastici l’aumento è nell’ordine del + 15% nelle aree urbane.
Se la tesi prima esposta è corretta- e lo scenario dello spreco ne è la prova provata- anche gli imballaggi vanno considerati un sintomo dell’eccessiva produzione di cibo. Soprattutto quelli che contengono cibi freschi per i quali si arriva alla data di scadenza senza che sia stato l’acquisto. Mentre i prodotti da forno o l’ortofrutta -quando va bene- vengono conferiti in un impianto di compostaggio gli alimentari confezionati finiscono in discarica o negli inceneritori. Secondo lo studio The New Plastic Economy il 95% del valore del packaging, stimabile in 60-120 miliardi di dollari, si perde dopo un singolo utilizzo. Delle 78 milioni di tonnellate di packaging immesso al consumo il 72% non viene recuperato. Mentre il 40% va in discarica il 32% sfugge ai sistemi di raccolta “legali”.
Come abbiamo già precedentemente argomentato in un precedente post il design del packaging è prevalentemente orientato alle esigenze di ordine estetico dettate dal marketing oltre che agli aspetti che attengono al miglioramento della vita del prodotto (shelf-life) e della sicurezza alimentare. La riusabilità o la riciclabilità del packaging vengono considerate come optional di secondaria importanza. Questo approccio viene favorito dall’assenza di un sistema che orienti il mercato dell’imballaggio a progettare secondo i criteri dell’ecodesign attraverso leve economiche e fiscali. Come ha rilevato l’Agcom nell’ultima indagine conoscitiva IC49 alla pagina 169 del capitolo dedicato all’Epr (Extended Producer Responsibility) e al sistema dei consorzi Conai, l’80% dei costi di gestione dei rifiuti da imballaggio ricade sugli enti locali e sui cittadini. Se la situazione venisse ribaltata e i produttori dovessero, come avviene in altri paesi, prendersi carico della raccolta dei loro rifiuti passerebbero immediatamente ad una progettazione sostenibile del packaging e all’attivazione di sistemi di deposito su cauzione.
Esiste una stretta relazione tra packaging non riciclabile e lo spreco di cibo poiché la non idoneità al riciclo riguarda principalmente le monoporzioni o le piccole confezioni che vengono proposte proprio dall’industria e scelte dai cittadini ( come rileva l’Osservatorio nazionale Waste Watcher ) per prevenire lo spreco di cibo. Visto che lo spreco riguarda maggiormente le confezioni grandi, che rimangono aperte più tempo.
Va inoltre considerato che queste cosiddette confezioni antispreco sono realizzate da
combinazioni in multistrato di materiali eterogenei tra plastica, carta,
alluminio. Alcuni esempi sono le buste stand up poach
o i contenitori in tetrapack. Mentre le prime non sono riciclabili i contenitori in tetrapack il riciclo è possibile solamente in un paio di
impianti su tutto il livello nazionale. Pertanto, le partite che vengono raccolte in modo differenziato, e che
non possono per ragioni economiche e ambientali raggiungere questi
impianti, vanno a smaltimento in discarica o negli inceneritori.
-Leggi anche sull’argomento: I paradossi dell’evoluzione del packaging
(1) Stemming the Tide: Land-based strategies for a plastic-free ocean studio prodotto nel 2015 da Ocean Conservancy McKinsey Center for Business and Environment