Olimpiadi a confronto, Mennea: «Non sono mai state un buon affare»
«Oggi - spiega il campione - sono pochi i Paesi che possono permettersi di organizzare i Giochi», che portano con sé effetti di solito negativi: budget che lievitano, calo del turismo, costi enormi di gestione
22 February, 2012
Può una città come Roma basare il proprio sviluppo su un'edizione dei Giochi olimpici, della durata di una ventina giorni? È partito da questa domanda il dibattito organizzato a Roma da Laboratorio di Urbanistica, dal titolo “Grandi eventi e crisi”, a cui ha partecipato anche Pietro Mennea, il grande velocista che negli ultimi tempi si è pronunciato, diversamente da molti altri sportivi, contro le Olimpiadi a Roma.
«Ho fatto 5 Olimpiadi, quindi non potrò mai essere contrario ai Giochi, che però devono portare avanti i veri valori olimpici e non il business», chiarisce subito il campione, autore anche di un libro sull'argomento, “I costi delle Olimpiadi”. Ma al di là di quest'affermazione di principio, spiega Mennea, il problema dei grandi eventi è tutto economico: «I Paesi che sono in difficoltà economica non possono permettersi di organizzare i Giochi. Questo significa che oggi sono pochissimi i Paesi che potrebbero ospitare le Olimpiadi». Che non hanno mai portato bene all'economia di chi ha vinto la candidatura. «Secondo Morgan Stanley, dal 1956 al 2008 i Paesi che hanno organizzato le Olimpiadi sono poi andati incontro alla recessione, di intensità variabile, e alla svalutazione della moneta, eccetto Los Angeles». E gli esempi si sprecano. Prendiamo per esempio il caso della Cina, ultimo stato ad aver ospitato i Giochi: «Dall'agosto 2008 al gennaio 2009 si è passati dal + 9,5% al +6,5% di crescita del Pil. Si sono persi tre punti in pochi mesi. I cinesi aspettavano un milione di turisti, ma ne sono arrivati solo qualche migliaio».
E il turismo è proprio uno dei punti dolenti dei Giochi, che di solito, per una strana alchimia, fanno crollare il numero di visitatori e vacanzieri: «A Barcellona, per esempio, nei tre anni successivi alle Olimpiadi del 1992 il turismo è diminuito e ad Atene, nel 2004, 3 milioni di biglietti sono rimasti invenduti».
C'è poi la questione dei costi esorbitanti: «I budget di partenza non sono mai stati mantenuti, sono sempre aumentati, in certi casi addirittura di quattro volte». E sono andati in eredità alle generazioni più giovani: «Grenoble ha ospitato i Giochi invernali nel 1968, ma ha finito di pagare la tassa olimpica solo trent'anni dopo». A cui si aggiungono i costi di gestione delle mega-strutture sportive: «In Grecia, si spendono dagli 85 ai 100 milioni all'anno».
Dati che non prospettano niente di buono. E anche analizzando più da vicino l'esperienza greca, si scopre che per Roma, il no alla candidatura è stato probabilmente una fortuna: «I Giochi olimpici sono stati l'inizio di uno stato di emergenza per la Grecia. Hanno agito come un catalizzatore per lo sviluppo di infrastrutture, ma senza un dibattito democratico e partecipato», racconta Dimitra Siatitsa di INURA (International network for urban research and action). E la parte più difficile, in questi casi, «è riuscire a smontare il potere ideologico dell'evento, che promette uno sviluppo infinito e continuo», mentre per lo stato greco le Olimpiadi si sono rivelate controproducenti: «La maggior parte delle risorse sono venute dalle tasche pubbliche, contro il 16% dei privati».
Il messaggio, quindi, è chiaro: raramente le Olimpiadi sono state un buon affare. Forse solo per Los Angeles (1984), dove, racconta Mennea, «l'evento è stato organizzato tutto con i soldi privati, e persino il percorso della fiaccola olimpica era stato venduto agli sponsor». Così non sarebbe stato in Italia, visto che il progetto di Roma 2020 prevedeva, secondo il rapporto Fortis, un esborso di 8,2 miliardi di euro da parte dello stato. E non si trattava dell'unico punto critico. «La candidatura di Roma è stata presentata senza preoccuparsi di avere l'ok del governo, che doveva assicurare la copertura finanziaria», sottolinea Marcel Vulpis, direttore di Sporteconomy.it. A Roma, insomma, le condizioni per non presentare la candidatura c'erano tutte. C'erano invece tutti i requisiti per respingerla.