Effetto serra, Cina e Medio Oriente riaprono la discussione sul nucleare
GIANFRANCO MODOLO
23 June, 2004
A venticinque anni dall'incidente alla centrale di Three Mile Island (ricordate il film 'La Sindrome Cinese'?), a 18 anni dalla catastrofe di Cernobyl in Ucraina, nel mondo si torna a parlare, e neppure molto sommessamente, di rinascita del nucleare, vale a dire della necessità di produrre energia elettrica grazie alla scissione dell'atomo. E non solo negli Stati Uniti, dove ancora sorge la centrale di Three Mile (che, per inciso, con i reattori superstiti ha continuato a produrre energia senza alcun problema, più o meno come avviene a Cernobyl), ma anche in Europa, dove la 'verde' Germania che aveva progettato qualche anno fa di far uscire progressivamente di scena i suoi impianti atomici sta ritornando sui suoi passi. Se ne parla in Giappone, anche se lo scorso anno Tokyo ha dovuto chiudere provvisoriamente tutti gli impianti nucleari della capitale perchè la società di gestione aver fornito all'ente preposto dati falsificati sugli standard di sicurezza delle centrali. E se ne parla, ma ancor più sommessamente, in Italia dove ancora non si riesce a trovare un sito per scaricare le scorie dei cinque impianti operanti nel nostro paese sino al referendum del 1987. Quali le cause di questo ripensamento sulla necessità di non smantellare il patrimonio esistente nel mondo (441 impianti esistenti, 32 in costruzione) e anzi di accrescerlo proprio nel momento in cui gli studi più accurati, uno del Mit di Boston e l'altro dell'inglese Royal Academy of Engineer, dimostrano cifre alla mano che, al di là dei rischi di catastrofi come quella di Cernobyl e di incidenti come quelli di Three Mile, Tokyo e Malville, l'energia prodotta con l'atomo costa assai più di quella generata dal carbone, dal gas e dagli impianti idraulici? La prima risposta, quella più immediata, trae origine da eventi recenti, quale il rialzo del petrolio, del gas e del carbone dell'ultimo anno. Anche se l'inglese British Petroleum si premura di informarci che l'anno scorso le riserve mondiali di greggio sono aumentate del 10 per cento a 1.150 miliardi di barili e che il petrolio non mancherà per i prossini 4050 anni, gli esperti sono certi che i prezzi di questa importante materia prima continueranno a salire, sia per ragioni geopolitiche (guerre e tensioni terroristiche in Medio Oriente (dove si concentra il 50 per cento delle riserve) sia perché nuovi protagonisti della scena economica mondiale sono pronti a reclamare la loro quota di energia. E si tratta di colossi, dal punto di vista della popolazione, come Cina e India che insieme vantano 2,3 miliardi di abitanti. Ma vi è una seconda considerazione che si sta imponendo. Per quest'anno il Fondo Monetario prevede una crescita mondiale del 4,24,5 per cento. E il modello di sviluppo che viene perseguito in tutto il mondo si basa sul consumo di energia, in ogni forma questa venga utilizzata: per produrre beni, per il trasporto, per illuminare, riscaldare o raffreddare, per divertirsi, per curarsi o per armarsi e combattere. Qualche dato fornito dalla società di studi Enerdata può indicare quanto sta succedendo: lo scorso anno, a fronte di una crescita globale del 2,4 per cento, il consumo mondiale di energia è cresciuto del 2,2 per cento rispetto al 2002, passando da 10,2 a 10,4 miliardi di tonnellate di Mtep (milioni di tonnellate di petrolio o prodotti equivalenti). Ebbene, il carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, ha soddisfatto da solo questa crescita, facendo salire al 24 per cento la sua quota del mercato mondiale dell'energia, contro il 35 del petrolio e solo il 6 per cento del nucleare (che vale però il 19 per cento per la produzione di energia elettrica).Inutile aggiungere che la Cina ha coperto l'80 per cento dell'incremento del carbone per alimentare le proprie centrali elettriche. Ma la Cina, che cresce a ritmi vertiginosi, oggi non vale che il 13 per cento del Pil mondiale, contro il 25 per cento degli Stati Uniti e il 43 di Europa e Giappone. Se Pechino crescerà ancora, le emissioni di anidride carbonica delle sue centrali a carbone contribuiranno in maniera decisiva ad aumentare quell'effetto serra considerato il responsabile degli attuali cambiamenti di clima. Se nel 1990, quando il fenomeno venne preso sotto esame, il livello delle emissioni di anidride carbonica veniva calcolato a quota 100, ora siamo a 120. Non a caso, gli ultimi risultati delle ricerche effettuate nei ghiacci dell'Antartide dimostrano che l'effetto serra non è mai stato così alto negli ultimi 450.000 anni. Alla faccia del Trattato di Kyoto, del mercato dei fumi dove si scambiano i diritti di inquinare alla stregua delle merci o dei titoli cartacei e delle giuste preoccupazioni degli ambientalisti. Ecco perché lo studio del Mit sostiene che il mondo non potrà reggere nello stesso tempo gli attuali ritmi di crescita economica e garantire il controllo delle emissioni di anidride carbonica. Certo, si possono ridurre i consumi, aumentare l'efficienza degli impianti esistenti, evitare gli sprechi, trovare fonti energetiche alternative non inquinanti, (vento, maree, solare, fusione dell'atomo) ma ci vuole tempo, mentre la minaccia dell'effetto serra appare sempre più immanente. Occorre dunque utilizzare la tecnologia già sperimentata che non produce anidride carbonica, quella nucleare. Rafforzando il nucleare, triplicarne il livello passando dall'attuale 19 per cento della capacità mondiale di generare energia elettrica al 50 per cento in 45 anni significherebbe, sostiene lo studio del Mit, abbattere del 25 per cento il previsto tasso di aumento delle emissioni di anidride carbonica da parte delle centrali a carbone, gas e olio combustibile, ridurne l'apporto di circa 1,8 miliardi di tonnellate. Sono proprio queste le considerazioni che spingono i governi a rivedere i loro progetti in materia di energia, gli ecologisti a ritornare sulle loro convinzioni, e i pochi sostenitori del nucleare a rialzare la testa. Va detto subito che la lobby nucleare, formata all'epoca da industrie costruttrici di impianti, fornitori di combustibile, tecnici e scienziati del settore, ha ormai scarsissima influenza politica dopo la disfatta di Cernobyl. In Europa qualcosa si muove intorno a Framatome, che concentra le tecnologie francese e tedesca, negli Stati Uniti domina General Electric, in Giappone Hitachi, in Italia, un tempo all'avanguardia nel settore, è rimasto un piccolo presidio di 180 esperti all'Ansaldo Nucleare, un decimo della forza di vent'anni fa. Ma è possibile che anche in Italia si assista ad una ripresa della cultura nucleare dopo la pausa di 17 anni e il referendum che ci ha tagliato fuori da ogni interesse in materia? "Noi abbiamo mantenuto un presidio che ha operato all'estero per conservare e aumentare le capacità di progettazione e di realizzazione di impianti in Romania risponde Roberto Adinolfi, direttore generale della divisione nucleare di Ansaldo Energia abbiamo portato avanti studi di fattibilità con Westinghouse per nuovi reattori di tipo avanzato ad acqua pressurizzata da 600 e 1.000 megawatt. Se mai ci dovessero chiamare, siamo pronti". Più freddamente due esperti del settore, Sergio Vaccà e Giovan Battista Zorzoli, in uno studio pubblicato dallo Iefe ritengono che il rientro con successo dell'Italia nella cultura nucleare potrebbe avvenire a due condizioni ben precise: lo sviluppo positivo di nuovi impianti 'sicuri' da parte dei paesi che ancora dispongono del know how e l'associazione dell'Italia nella progettazione e nella gestione di questi impianti. Un obiettivo facile a dirsi, ma difficile a realizzarsi, sempre che l'effetto serra non affretti gli avvenimenti, proprio come sta accadendo altrove.