La spaccatura su piazza Taksim. Stefano Boeri da Istanbul
Abbiamo chiesto all'architetto e politico milanese Stefano Boeri in visita a Istanbul un articolo da urbanista sul conflitto nato nel cuore della capitale turca. Da una parte la difesa degli alberi, dall'altra la pedonalizzazione della piazza? Non è tra queste opzioni la scelta. E' un conflitto tra due diverse Turchie, cresce col movimento anti-Erdogan una rivoluzione culturale.
09 July, 2013
Piazza Taksim, l’unica grande piazza di istanbul, il cuore pulsante di una metropoli di 15 milioni di abitanti è in questi giorni uno spazio a corrente alternata.
Per lunghe giornate torna a funzionare come un grande pacifico snodo di flussi: turisti, studenti, famiglie scorrono sotto lo sguardo attento della polizia.
Poi, di colpo, la piazza esplode. Basta l’accenno di un gruppo di ragazzi a fermarsi, a non scorrere, a prendere posto e spazio nella piazza e la polizia interviene: carica, manganella, getta gas tra la folla. La rivolta riparte e si diffonde lungo le vetrine di Istikal Caddesi (la grande strada commerciale pedonalizzata) e i vicoli ripidissimi del quartiere di Galata.
Finchè la polizia non riprende possesso della piazza. E i rivoli attorno si disperdono.
In un momento di calma, fisso nella piazza un appuntamento con Akhun, 60 anni, che vive ad Asia, nella parte ad est del Bosforo della grande metropoli turca.
L’ho conosciuto trent’anni fa a Venezia, quando studiava allo IUAV. Tornato in Turchia negli anni 90’ ha per lungo tempo faticato a imboccare la corrente giusta. Oggi ha uno studio di architettura con 40 dipendenti, molti lavori in corso con le amministrazioni pubbliche e non smette di raccontare l’epopea dello sviluppo recente del suo Paese; una crescita economica “come quella del vostro Paese negli anni 60” che ha cambiato l’anima e il corpo di questo grande Paese di confine.
Il giorno dopo telefono e incontro, a Taksim, Cicek. Lei di anni ne ha 28 -e vive nel centro storico, vicino alla Torre Galata. Ha studiato architettura a Istanbul, si è specializzata con me al Berlage Institute di Delft e oggi lavora in una fondazione privata che si occupa di investimenti in arte e cultura. I suoi genitori, entrambi architetti, sono iscritti alla Camera degli architetti e degli urbanisti di Istanbul e rappresentano bene quella borghesia urbana illuminata che ha occupato la scena centrale della politica turca degli ultimi decenni, prima dell’avvento del partito islamico.
Parlando di Piazza Taksim e di quanto vi è accaduto nelle ultime settimane, Akhun e Cicek raccontano storie diversissime.
Cicek parla del progetto di pedonalizzazione della Piazza e di sostituzione del Parco Gezi con un centro commerciale come di una grande speculazione voluta dai proprietari delle grandi catene di distribuzione; quelli che oggi comandano le politiche urbanistiche turche. Disprezza l’autoritarismo e l’arroganza di Ergodan – ex sindaco di Istanbul che ancora oggi pretende di decidere il futuro della città, di “demolire, costruire, aggiungere cemento o verde o strade dove e come gli pare”. Ride beffarda del giudizio ottuso (“un brutto edificio barocco, da abbattare”) che Ergodan ha rivolto al Teatro invece super-razionalista dedicato a Ataturk che si affaccia su Piazza Taksim. E racconta del movimento di protesta cresciuto attorno alla difesa del parco e subito trasmutato in una grande onda d’urto contro l’islamizzazione del Paese, le restrizioni nei costumi, il rigetto della grande cultura cosmopolita di Istanbul.
Akhun parla dello stesso progetto come del recupero di un’antica preesistenza (una caserma) e della necessità di razionalizzare l’unica e la più importante piazza di Istanbul, oggi “ridotta ad un crocevia caotico e inquinante di macchine, moto, pedoni”. Per Akhun, l’arroganza di Ergodan è “evidente a tutti”, ma “non possiamo pensare di fermare la modernizzazione solo per salvare un gruppo di alberi –che i manifestanti per altro hanno sradicato”. Per lui, che ha sempre votato a sinistra, Piazza Taksim è un incidente temporaneo che non avrà conseguenze sulla politica turca e rischia soprattutto di sviare l’attenzione dei media internazionali dalle vere sfide del Paese: l’ingresso in Europa, gli investimenti in Asia e nei territori dell’Ex Unione Sovietica (dove,come in Kazakistan, le imprese tuche sono protagoniste) e l’alleanza con altri Paesi mediterranei che predicano un islamismo moderato.
Cicek e Akhun, architetti con una storia di esperienze internazionali, studi all’estero, votano entrambi a sinistra. Eppure a dividerli –insieme all’età- è una intera concezione del mondo.
La verità è che per decifrare quello che succedendo a partire e attorno a Piazza Taksim, non bastano le ragioni della buona urbanistica e di una corretta ecologia urbana.
Ascoltando Akhun e Cicek si conferma la sensazione di un'opinione pubblica spaccata nettamente in due: da un lato la borghesia intellettuale, i professionisti, il mondo della cultura, gli imprenditori con relazioni internazionali e un'intera generazione di ragazze e ragazzi. Dall'altro un ceto medio che si è potentemente arricchito negli ultimi anni, gli operatori della grande distribuzione commerciale e una quota importate della popolazione metropolitana -di tutti i ceti- che non vive a ovest del Bosforo.
Una spaccatura netta, culturale e insieme geografica, che tuttavia non si riflette in un sistema politico parlamentare che di fatto non prevede una vera dialettica tra maggioranza e opposizione. La Costituzione turca prevede infatti una quota di sbarramento del 10% per accedere al Parlamento. Un blocco che attribuisce alla maggioranza un potere enorme di contrattazione e ricatto. Ed è questo, insieme con un esercito che si erge a paladino della laicità dello Stato, uno dei grandi problemi e dei paradossi della democrazia “occidentalizzata” turca.
Il movimento di protesta non ha ancora una leadership e non la cerca. Vive su una rete di contatti veicolata dai Social, nel silenzio di tutti, proprio tutti, i media ufficiali. Cresce sotto traccia, e fino ad oggi è riuscito ad evitare il rischio di essere etichettato dai piccoli partiti della sinistra o da parti del Sindacato.
La sua forza sta nel rivendicare un DNA davvero particolarissimo, radicato in una storia antica (quella di una Turchia aperta e tollerante, occidentalizzata) e un presente che chiede al Paese di non perdere la sua complessità politica e culturale; di non perdere a favore di un unico blocco di potere il suo ruolo storico di epicentro planetario tra continenti, sfere di influenza geopolitica e militare, aree di interesse economico.
Nelle prossime settimane capiremo cosa il movimento riuscirà a fare per diventare un vero e proprio soggetto politico nazionale e come Ergodan -forte di uno sviluppo economico potente e visibile- saprà reagire.
Ma la sensazione, già vista in altre parti del mondo- è che anche qui la partita si giochi su campi diversi e incomunicanti: da un lato la rete, i social, un campo di reti locali al centro dell'attenzione dei media planetari; dall'altro gli equilibri della politica istituzionale e i suoi impegni internazionali.
A separare le due Turchie, le due parti di istanbul, il realismo perbenista di Akhun e l’entusiasmo ingenuo di Cicek non è dunque l’idelogia e neppure la reglione, tantomeno la politica.
A distinguere Cicek da Akhun è qualcosa che le ingloba tutte - e che assomiglia ad una grande rivoluzione culturale.
Un movimento di giovani e intellettuali, artisti, professionisti, che non può accettare di veder sparire la lunga storia di laicità e libertà di diritti che ha accompagnato la vita dei loro nonni; che guarda al mondo come campo di espressione della propria voglia di libertà e ad una piazza come campo dove trovare i simboli della propria battaglia.
La partita di Piazza Taksim è insomma apertissima, perchè mette in gioco il futuro di un intero Paese.
E il suo risultato, sia chiaro, ci riguarda tutti.