Ilva due anni dopo
da Il Corriere del Mezzogiorno del 26.07.2014
28 July, 2014
di Alessandro Leogrande
Sono passati due anni da quando il 26 luglio del 2012 il gip Patrizia Todisco emise un ordinanza di sequestro dell'area a caldo dell'Ilva. Quel giorno il nodo del disastro ambientale, a lungo covato, esplose con fragore. Nel pomeriggio migliaia di operai si riversarono nella città, bloccandola. Nei giorni successivi il tasso di mobilitazione schizzò in alto: ci furono contrapposizioni feroci tra idee diverse circa le sorti dello stabilimento.
Da allora, il conflitto che ha animato Taranto non è stato tanto tra i sostenitori della salute e quelli del lavoro, in una logica di reciproca esclusione. Metterla così è sempre stato molto riduttivo. In realtà la vera linea di demarcazione, a geometria variabile, ha visto contrapposti chi crede che l'unico modo per tenere insieme lavoro, salute e ambiente fosse trasformare radicalmente gli impianti (e forse lo stesso ciclo produttivo) e chi ormai ritiene quel sistema di fabbrica irriformabile, e pertanto destinato alla chiusura.
In questi due anni ci sono stati i decreti-Ilva, i pronunciamenti della Cassazione, la sentenza di condanna dei vertici del Gruppo Riva per truffa presso il Tribunale di Milano, quella per l'amianto presso il Tribunale di Taranto, lo svolgersi dell'inchiesta Ambiente svenduto. Mentre i governi e i ministri competenti sono cambiati, si sono succeduti vari commissari, e nel frattempo è morto Emilio Riva, il dominus dell'acciaieria nell'ultimo ventennio. Ma nonostante questa girandola di eventi, il nodo della questione sembra essere pericolosamente fermo al punto di partenza, dal momento che sono ancora tutte lì le incognite circa il reperimento dei fondi necessari per la realizzazione del piano industriale-ambientale. Premesso che allo stato attuale, dopo l'uscita di scena di Bondi e di Ronchi, non si capisce bene neanche quale piano debba essere portato a termine, da due anni si assiste al balletto intorno ai miliardi di euro necessari per intervenire sullo stabilimento. Non tanto sull'entità della spesa (più o meno intorno ai 4 miliardi), quanto sulla fonte di reperimento. Al di là della difficoltà di utilizzare i fondi sequestrati ai Riva dalla Procura di Milano, sembra venir meno anche la possibilità di un intervento diretto del governo. Così, nella nuova fase del commissariamento Gnudi, si attende di capire quanto reale possa essere l'intervento di ArcelorMittal o di altri.
Il guaio è che la questione sanitaria-ambientale rischia quasi di passare in secondo piano. Quando a fatica sono stati individuati i finanziamenti necessari per il prestito-ponte, si è pensato unicamente a evitare il collasso immediato dello stabilimento, ma non a un cronoprogramma certo per la sua trasformazione. Del resto, non sarebbe neanche possibile ridefinirlo prima che venga sciolto il nodo dei nodi: chi avrà in mano il governo della fabbrica dopo i Riva.
Così a due anni da quel luglio, ciò che sembra venir meno è proprio la fiducia nella possibilità che il sistema-Ilva sia riformabile. Nessuno lo dice apertamente, eppure su tutta la vicenda sembra regnare una strana apatia, al cui fondo aleggia il fantasma della dismissione di Bagnoli. Se viene meno quel sottile strato di fiducia, condivisa da un numero sempre più ridotto di attori sulla scena, viene meno tutto. Il bubbone esploderà in mille rivoli, e sarà impossibile ricondurli a unità.