“Come una città, da centro, diventa periferia e poi campagna è uno spettacolo”. Lettera di un viandante occasionale
In occasione della Giornata Nazionale del Camminare del 12 ottobre, pubblichiamo la lettera di Matteo Volpengo che racconta una camminata di sei ore per arrivare da Torino a Grange di Brione “Attraversare una città piano piano, vederla sfilare, diradarsi e poi sparire. Il primo prato, il primo campo. I primi alberi selvatici, preludio di bosco”
07 October, 2014
Caro Paolo,
questo pomeriggio sono tornato a casa a piedi.
Tu abiti praticamente nel centro di Torino, io abito a Grange di Brione, una piccola frazione a ridosso delle montagne. Di mezzo ci sono 20 Km. Ho camminato per sei ore.
Ieri sono venuto giù in bici e ci ho messo 1 ora e 10. Perché non ho fatto anche il ritorno in bici?
Perché ho scoperto che il sellino mi dà fastidio: è troppo piccolo e duro.
Perché non sono mai andato da Torino a casa mia a piedi.
Perché avevo tempo.
E’ stato bellissimo. Anche se all’inizio mi sembrava un po’ un’impresa. Non per la lunghezza del tragitto, sono abituato fin da piccolo a fare lunghe camminate in montagna. E’ che sembra impossibile uscire da una città a piedi, soprattutto quando ti trovi nel suo centro.
La maggior parte delle persone che vedi camminare in città fa perlopiù tragitti brevi; per i lunghi spostamenti si usano le automobili o la bici.
Nessuno qui esce dalla città a piedi per andare in un posto a 20 Km di distanza, casa. In Africa sì, lo fanno.
Avevo tempo, avevo bisogno di riflettere e di vedere le cose da un altro punto di vista. Già, perché fare a piedi un percorso che sei abituato a fare in macchina o in bici è completamente diverso. Prima di tutto è molto pericoloso, non puoi camminare a piedi su una strada statale, con le macchine che ti sfrecciano di fianco a 80-90 Km orari. Cioè puoi farlo, ma è degradante. Ho provato: ti senti piccolo piccolo, vulnerabile, sfigato, continuamente in balia di questi mostri di metallo velocissimi e pesanti.
E’ un modo per rendersi conto della violenza delle automobili: non perdonano nulla che non vada alla loro stessa velocità e che non sia della loro stessa stazza. Fortunatamente da qualche anno sulla statale che conduce al mio paese hanno costruito una pista ciclabile. Non lungo tutto il percorso però.
Insomma, se in bicicletta puoi permetterti di stare in strada insieme alle automobili, a piedi no, cioè puoi, ma proprio se non puoi farne a meno.
Pensa che effetto fa agli automobilisti vedere uno che cammina a bordo strada, lungo una provinciale di campagna, appena fuori dalla città.
Poverino. Povero Cristo. Non avrà un posto dove andare. Chissà perché è lì. Che cavolo fa che ancora un po’ lo investo!?
Il nostro è un mondo è costruito per le macchine, non per i piedi degli esseri umani. Se vuoi camminare vai in montagna, vai nei parchi, vai in vacanza. Prenditi un week-end, una mezza giornata. Prendi l’automobile (appunto) e recati in un bel posto, lontano dalla tua quotidianità.
Sono riflessioni che ti vengono mentre cammini.
Attraversare una città piano piano, vederla sfilare, diradarsi e poi sparire. Il primo prato, il primo campo. I primi alberi selvatici, preludio di bosco.Non è bello come un parco nazionale, ma molto reale, vicino, interessante. Come una città, da centro, diventa periferia e poi campagna è proprio uno spettacolo, a cui i nostri occhi non sono più abituati. Quasi quasi rinuncio alla bici. Ti rendi conto delle distanze, misuri umanamente le distanze. Siamo abituati ad essere costantemente al di sopra dei ritmi del nostro corpo: 20 minuti in macchina, 1 ora in bici, 6 ore a piedi. Tempo, passi, paesaggio, sudore, corpo, il proprio corpo che cammina, osserva, comprende.
E’ strano camminare dove tutti gli altri procedono in auto o al massimo in bici (questo succede appena uscito dalla città).
I piedi non amano l’asfalto, nemmeno quello della pista ciclabile; vorrebbero il sentiero, la terra, i sassolini, l’erba.
Appena posso procedo nei campi adiacenti la strada, pieni d’erba. Cammino dove pochissimi altri hanno camminato. Trovo nel prato un cd musicale rotto, lanciato in corsa da qualche autovettura.
Recupero il cd e lo tengo in mano fino al primo cestino dell’immondizia, nei pressi di una fabbrica di cuscinetti a sfera.
E dopo il primo paese finalmente la campagna, che mi consente di lasciare la molto trafficata strada provinciale per darmi alle stradine costellate di villette, che poi diventano strade sterrate, e le villette diventano cascine, più rade e circondate da campi e natura.
Compaiono gli orti strapieni di cibo, dove generazioni e generazioni hanno imparato a trarre il massimo da piccoli spazi. I primi alberi da frutto.
E’ incredibile la differenza fra le villette e le cascine.
Le villette sono rigorosamente separate dal circostante, con ringhiere e cancelli, un cartello ad indicare la sorveglianza di telecamere collegate a centrali di polizia. Non ti senti il benvenuto.
I prati dei giardini tutti rasatissimi e perfetti, alberi ornamentali a completare la composizione.
Le case bellissime, troppo belle, troppo finte. E’ tutto al di sopra della realtà, della natura selvatica, del contatto manuale con la terra.
Le cascine invece emanano polvere, sono dello stesso colore del circostante, si integrano perfettamente con il paesaggio. Sono aperte, con grandi aie protette da cancelli che una volta non c’erano.
Vedi una vecchia signora nell’orto, che fa piccoli lavori, vestita in modo semplice.
Le villette sembrano piovute dall’alto, a schiacciare il paesaggio ed imporre la loro forma.
Le cascine rispecchiano l’integrazione con l’ambiente delle persone che vi abitano dentro. Il bosco ed i prati continuano nei muri e oltre le pareti.
Trovo un melo solitario in mezzo a un campo, a ridosso di un piccolo laghetto da cui sporgono canne.
Ecco del cibo perfettamente umano, non ho bisogno di cuocere, cucinare o preparare. Stacco e mangio, buonissime mele rosse.
E non sto facendo del torto a nessuno perché la maggior parte della frutta giace a terra semi-marcia. Anzi, faccio un favore all’albero gettando il torsolo lontano, offrendogli la possibilità di propagarsi.
Incontro un cucciolo di gatto grigio-chiaro-tigrato, lungamente ci facciamo le coccole finchè io mi siedo sulla strada e lui si adagia tranquillo sulle mie gambe. Assaporo il tramonto e il vibrare delle fusa.
E la strada sterrata s’inoltra nei campi, mi trovo sulla cresta di una collina che avevo mille volte costeggiato in auto o in bici.
Ora intorno a me ci sono solo alberi, campi, uccellini. Il cielo sopra la testa si fa più vasto. Vedo chiaramente le prime montagne avvicinarsi.
Ecco il secondo paese e di nuovo, a ritroso, la solita sequenza: cascine, strada asfaltata, villette.
Domando la strada più conveniente ad un signore in bici ed una signora a piedi che stanno chiacchierando tranquillamente ai bordi della strada poco frequentata. A me rispondono in italiano mentre fra loro, per mettersi d’accordo sul tragitto, comunicano in piemontese.
E io mi rendo conto di come sia più immediato il dialetto, più semplice, più vicino alla realtà delle cose, più vivo, organico, mobile. Meno ingessato dell’italiano.
Scopro che il dialetto sta alla lingua italiana come le cascine alle villette.
Penso ai grandi poeti italiani, che mi hanno ispirato così tanto. E penso ai grandi poeti dialettali, pure novecenteschi, che non ho letto. E a cosa mi sono perso.
Ritorno in piena campagna, ogni tanto mi devo fermare per ammirare un albero particolarmente grande. Mi si rimescola il sangue nella pancia, il mio cuore si riempie di gratitudine. Dev’essere perché sono poco abituato alla bellezza dei grandi alberi.
La chioma e i rami ti danno un’impressione di ordine, armonia, eleganza, e allo stesso tempo di ricchezza, varietà e complessità. Caos e ordine convivono perfettamente. Gli alberi e i paesaggi della natura sono inesauribili come i più grandi dipinti della tradizione pittorica. Bisognerebbe fermarsi a guardare gli alberi come ci si ferma davanti a un Picasso (o Giotto, Leonardo, Caravaggio, metteteci chi volete). E lo stesso vale per prati, farfalle, ruscelli, cieli, uccelli, montagne. I contorni delle montagne all’orizzonte! Le venature delle rocce, lo zampillare dell’acqua. Per non parlare dei suoni, odori, sensazioni tattili, gusto…
E tutto questo mentre sto tornando semplicemente a casa, a due passi da asfalto e tralicci.
Vorrei anche scrivere dei boschi visti da lontano, dove ogni albero s’integra perfettamente con gli altri e tutti insieme sembrano una famiglia affiatata, con tanti membri di altezza, forma e colori differenti.
Come ci farebbe bene a noi umani imparare dai boschi…
Ecco. In questo crescendo di sensazioni sono arrivato a casa, non prima di avere incontrato un gregge di mucche dirette al macello e due uomini a cavallo.
Sono arrivato piacevolmente stanco ed appagato.
Certo, fare questo tragitto a piedi ogni volta che mi devo recare o tornare da Torino sarebbe molto complicato. Soprattutto quando dispongo dell’alternativa di automobile e bicicletta.
Ora però si tratta di una nuova possibilità fra le mie corde, che sicuramente continuerò a sperimentare, perché mi rende felice.
E sicuramente cercherò di trasformare e organizzare la mia vita in modo che gli spostamenti a piedi, anche lunghi, siano sempre più comuni ed agevoli.
Mi sono dilungato, ma lo sentivo necessario.
Un abbraccio,
Matteo