L’economia del cassonetto
Viaggio nell’associazione Vivi Balon, che regola i mercati dell’usato di centinaia di disperati - da La Stampa Torino del 02.12.2017
04 December, 2017
Maria Teresa Martinengo Muri gialli, sedie scompagnate, bancone vissuto, in giro fotografie e ricordi, il distributore del caffè che si attiva spesso, quasi con la stessa frequenza della porta che si apre. È un posto caldo contro il freddo l’Associazione Vivi Balon al canale Molassi. Qui ogni settimana arrivano centinaia di persone, una quota molto importante di loro è «marginale», povera. Non chiedono aiuto, qui cercano di «aiutarsi da sole»: vengono a pagare la piccola quota (13 euro) che consente di assicurarsi un posto per vendere cose usate in uno dei mercati del libero scambio della Città, il sabato a Canale Molassi, la domenica in via Carcano, al Barattolo. Gli elenchi devono essere consegnati al Comune entro la vigilia. L’associazione (origine negli anni 90 con The Gate, vincitrice del bando comunale) regola in modo ufficiale i mercati informali, dei non professionisti e la ricchezza che nasce dai cassonetti, dagli sgomberi di cantine, e che dà un po’ di fiato a chi ha poco o niente. «Qui ogni persona è una fisionomia, un’identità, con diritti e doveri. L’associaizone ha un ruolo sociale, prima di tutto», dice Alessandro Stillo, organizzatore culturale, residente in zona, che ha legato il suo nome a Vivi Balon. Gli Ahmed, i Mihail, i Luigi senza lavoro o con lavori precarissimi, così come i cento rom ormai stabilmente parte dei 400 venditori del sabato e della domenica, sono uomini con una storia nota almeno a partire dalla data del tesserino, tenuto bene quanto la carta d’identità o il permesso di soggiorno. Spesso molti anni. Sono Francesco Planeta, «Salvatore», presidente di Vivi Balon, e Cristina Grosso, tesoriera, a conoscerli uno per uno. Ai tavoli dove si discute di povertà, Salvatore e Cristina potrebbero dare un bell’apporto. «Insieme alla gente che qui riesce a mettere insieme qualche decina di euro la settimana, c’è una quota di brocanteur non professionali», precisa Cristina. Che ha ben chiaro come a questi mercati si accorra per necessità - in cerca di un passeggino usato, un paio di scarpe, una giacca, una pentola e qualsiasi cosa comprabile per pochi euro - o «per affari»: collezionisti, antiquari, galleristi. È qui che le «due città» - così l’arcivescovo parla dei mondi torinesi che non si incontrano - hanno qualche probabilità di guardarsi negli occhi, dirsi qualche parola. L’organizzazione
Ahmed, giacca a vento gialla e berretto tricolore, è in crisi. Lui ha la tessera dal 2004, il banchetto deve farlo, ma tutto il giorno non ce la fa a rimanere presente, come chiede il nuovo regolamento approvato dal Comune dopo l’omicidio avvenuto in via Carcano. «Ci sono persone che sono salite partendo proprio da qui - racconta Salvatore - e tante che sono qui perché invece sono cadute, non hanno più lavoro o si arrabattano in mille modi. Qui si può vendere solo roba usata, niente alimentari, batterie o copertoni. Qui al secondo verbale dei vigili resti fuori per tre settimane. Per molti vuol dire non pagare una bolletta, anche non mangiare». Entra Said, marocchino: «Facevo il sarto, ero dipendente. Non ho più trovato lavoro, questo mercato è l’unica occasione». Intanto arriva una coppia rom con quattro figli. «I rom - racconta Salvatore - li abbiamo “scoperti” nel 2009 quando il mercato di San Pietro in Vincoli era per metà abusivo. La Città ci ha chiesto di censirli. Oggi quelli che non vanno a rubare e non lavano i vetri, vengono qui. Io stesso ne aggancio ai semafori, spiego che c’è questa opportunità. Il libero scambio va incontro alla marginalità».
«I rom che cercano nei cassonetti in Barriera di Milano li conosciamo quasi tutti, stanno in via Germagnano, sono organizzati solo con l’uncino e un carrettino, niente di più», dice Salvatore. E Cristina: «Ce ne sono alcuni che lo fanno per conto di altri che non vogliono andare in giro a farsi insultare. Sono gli operai. Ciò che arriva al campo viene esposto: c’è chi compra per sé oppure paga 10 sperando di vendere a 20. Le donne lavano e sistemano». Prosegue: «Queste persone si fidano di noi, a volte riusciamo ad aiutarli per una stufa, per i libri di scuola. È importante tenerle agganciate, per questo abbiamo chiesto al Comune che rispetto al nuovo regolamento ci possa essere una sorta di sanatoria per chi aveva già la tessera ma non la residenza». I venditori pagano 10 euro per la giornata più 3 di cauzione. Servono a pagare la raccolta rifiuti, 60 mila euro a giornata, altrettanti di suolo pubblico. «Dagli stracci dei cassonetti, dalle cose recuperate c’è chi ricava 50-70 euro a settimana. Per tante famiglie è un introito importante. Per questo chiediamo che almeno chi era già nei vecchi elenchi possa continuare...». Nel frattempo, la Città continua a discutere sul futuro dei mercatini e della loro collocazione, mentre gruppi di residenti continuano a protestare.
Il testimone. “Faccio questa vita per offrire ai miei figli un futuro diverso”
Alia Seferovic arriva all’ufficio di Vivi Balon con la moglie Munevera e il figlio adolescente. «Ha finito la scuola, ma quest’anno non è riuscito a entrare in un corso professionale. Speriamo l’anno prossimo - dice il padre - perché non deve fare anche lui questa vita». La vita è quella che in un modo o nell’altro gira intorno ai cassonetti. Se Alia, bsniaco, alcuni figli grandi diventati cittadini italiani, è fortunato, come è successo qualche giorno fa, viene chiamato per sgomberare una cantina. Con un vecchio furgone così riesce a mettere insieme più facilmente qualche «tesoro» da vendere nel mercato informale. All’associazione di Canale Molassi lo conoscono bene. «Alia, come altri, ha la cultura dei cassonetti - dice Cristina Grosso, la tesoriera di Vivi Balon -, sono persone che lasciano tutto pulito intorno». Già, il rispetto delle regole nell’informale aiuta. «C’è gente che vede arrivare mia moglie dal balcone, la chiama, le mette le cose nell’ascensore e glielo manda sotto. Noi, come tantissimi altri, passiamo nella nostra zona tutti i giorni. Stessi orari. È come andare in fabbrica e per me è la vita: con la bici e il carrettino. La mia tessera dell’associazione è la 103, una delle primissime. Sono qui dal ’94». Alia Seferovic è preoccupato per le voci che parlano di una possibile chiusura dei Molassi. «Se dovesse andare così per me sarebbe la fine, non posso fare altro. Ho preso la borsa lavoro, anni fa. Adesso non ci sono più i soldi per quelle cose». Alia con i suoi due figli più piccoli vive in un condominio popolare del Lingotto. «Nelle due settimane in cui il Comune ha sospeso i mercati dopo l’omicidio di via Carcano - racconta - sono andato a lavare i vetri al semaforo. I vigili mi hanno fermato: gli ho mostrato le bollette dell’Atc, 900 euro per affitto, luce e gas. Ho potuto pagare l’affitto, luce e gas ce li hanno staccati. Ho un figlio che va ancora alla scuola media, la situazione è triste. Come lo è per tante persone che vendono qui, che non arrivano a fine mese: marocchini, romeni, italiani. Di concorrenza ce n’è tanta».
Le grandi firme “Seleziono i pezzi migliori Poi li lavo e li rivendo”
Claretta Sambun, origine nigeriana, cittadina italiana, vive a Torino da venticinque anni. Il suo banchetto, decisamente di qualità, è proprio davanti all’ingresso di Vivi Balon. Claretta vende anche usato firmato, grandi marchi della moda. Molte cose sono parecchio usate, ma suscitano comunque interesse. «Io compo anche da altri che vendono qui - racconta - e seleziono molto. Con la mia compagna vado anche a comprare nelle case. Il pubblico ormai mi conosce, sono dieci anni che lavoro qui». Claretta accontenta ragazze e signore. «Una borsa firmata? Io la vendo a dieci, quindici euro. Ma c’è del lavoro dietro: la pulisco, la sistemo. La gente che viene qui il sabato è di tutti i generi, ma da me cerca cose belle Claretta a prezzi che si possono spendere anche se fai fatica a tirare avanti. Una giacca che nel negozio costa 250 euro, da me ne costa 10. Sì, non è nuova, ma se è lavata e stirata, sembra nuova. Se non si fa così - sorride -, come si fa?». Questa donna sorridente nel tempo ha visto cambiare il mercato. «Eravamo dall’altra parte, poi ci hanno spostato qui. Prima c’erano soprattutto italiani, adesso ci sono soprattutto stranieri. Ma oggi questo mercato assolve a una grande funzione: permette alla gente di non andare a chiedere l’elemosina. Anche i rom: se ne vedono meno in giro che chiedono. E questo succede perché vengono qui il sabato. Frugano nei bidoni e vendono per tirare avanti. Sono convinta che compiano meno reati. Chi vuole far chiudere questi mercati si metta una mano sulla coscienza: desidera vedere la gente soffrire?»
L’artigiano “Costruivo le biciclette Ora vendo i loro scarti”
Annibale Salvatore è specializzato in parti di bicicletta. «Sono l’ultimo dei soci fondatori di Vivi Balon e anche uno degli ultimi telaisti di Torino. Il mio lavoro era costruire le bici, poi la salute non me l’ha più permesso. Adesso durante la settimana faccio il sorvegliante. Il sabato vengo qui per restare legato al mio campo, se mi guadagno un’altra giornata sono contento. La domenica, invece, mi metto il gilet giallo e vado a fare il sorvegliante volontario al Barattolo, in via Carcano, con l’associazione». Annibale ha sellini, parti meccaniche. Ha anche dei libri, glieli ha regalati un amico che ha ripulito la libreria. «Ci sono ciclisti amici che Annibale mi danno la roba vecchia, che non si vende più». Indica il vicino, anche lui con pezzi per le biciclette. «È marocchino, è qui da tanti anni, ma non trova più lavoro e ha famiglia. Questo mercato consente di campare. Dappertutto - prosegue nel suo ragionamento Annibale - ci sono pochi soldi che girano. Questi mercati sono un riferimento per chi non ne ha e deve accontentarsi di roba vecchia, dagli abiti ai piatti, ai giocattoli». Poco lontano c’è un banco di giochi che rende l’idea delle «due città» e di come una possa essere utile all’altra: montagne di bambole, robot giganteschi, costruzioni. «Anche il Barattolo - aggiunge - sta diventando, come qui, punto di riferimento. Per 30 residenti che protestano ce ne sono 300 che vengono a curiosare».
Il rifugiato “Raccolgo ferro nei bidoni Un lavoro vero non c’è”
Sangor il posto per oggi ai Molassi e domani in via Carcano, sperando nel bel tempo, se l’è assicurato già mercoledì. Ha trent’anni ed è un rifugiato della Costa d’Avorio, una storia classica di emigrazione con i barconi, lasciandosi dietro violenza, miseria, sofferenze. È stato per parecchio tempo, fino a quando è passato alla Commissione che valuta le domande di asilo, in più strutture di accoglienza. L’ultima, quella di via Aquila, con il progetto Sprar. «Dopo con degli amici siamo riusciti ad affittare una casa in corso Vercelli - racconta - e ho cercato lavoro, ma senza trovare niente». In autunno è venuto ad iscriversi Sangor qui. E il lavoro è diventato quello, il solito: trasformare i rifiuti di chi può buttare e comprare nuovo, in una ricchezza che vale ancora. «Ho amici italiani che quando hanno qualcosa che può essere recuperato mi chiamano. Altrimenti raccolgo ferro e cerco dentro ai bidoni della spazzatura, recupero scarpe - prosegue Sangor -, vestiti, oggetti». La settimana successiva ricomincia. È da banchetti come il suo, che talvolta a fine mercato abbandonano piccoli oggetti, che l’associazione ambientalista Eco dalle Città di Paolo Hutter ha ideato il progetto «Cit ma bon» per il recupero e la consegna dell’oggettistica alla cooperativa sociale Triciclo: ogni sabato vengono preparate cassette di soprammobili che mantengono appeal e da cui ricavare ancora qualcosaIl rifugiato “Raccolgo ferro nei bidoni Un lavoro vero non c’è ” Sangor il posto per oggi ai Molassi e domani in via Carcano, sperando nel bel tempo, se l’è assicurato già mercoledì. Ha trent’anni ed è un rifugiato della Costa d’Avorio, una storia classica di emigrazione con i barconi, lasciandosi dietro violenza, miseria, sofferenze. È stato per parecchio tempo, fino a quando è passato alla Commissione che valuta le domande di asilo, in più strutture di accoglienza. L’ultima, quella di via Aquila, con il progetto Sprar. «Dopo con degli amici siamo riusciti ad affittare una casa in corso Vercelli - racconta - e ho cercato lavoro, ma senza trovare niente». In autunno è venuto ad iscriversi Sangor qui. E il lavoro è diventato quello, il solito: trasformare i rifiuti di chi può buttare e comprare nuovo, in una ricchezza che vale ancora. «Ho amici italiani che quando hanno qualcosa che può essere recuperato mi chiamano. Altrimenti raccolgo ferro e cerco dentro ai bidoni della spazzatura, recupero scarpe - prosegue Sangor -, vestiti, oggetti». La settimana successiva ricomincia. È da banchetti come il suo, che talvolta a fine mercato abbandonano piccoli oggetti, che l’associazione ambientalista Eco dalle Città di Paolo Hutter ha ideato il progetto «Cit ma bon» per il recupero e la consegna dell’oggettistica alla cooperativa sociale Triciclo: ogni sabato vengono preparate cassette di soprammobili che mantengono appeal e da cui ricavare ancora qualcosa.