Recovery Fund e politiche ambientali: quello 'strano silenzio sulle condizionalità positive'
Rossella Muroni, Stefano Ciafani, Francesco Ferrante sul Manifesto: "I fondi andranno usati su due assi: Green New Deal e rivoluzione digitale. Impressionante l'assenza di riflessione in Italia sul fatto che nell'accordo esistano queste condizionalità"
27 July, 2020
Rossella Muroni (deputata LeU), Stefano Ciafani (presidente Legambiente) e Francesco Ferrante (vicepresidente Kyoto Club) hanno scritto una breve riflessione sul Manifesto a proposito dell'assenza nel dibattito mediatico italiano di una discussione circa le condizionalità sull'utilizzo dei soldi del Recovery Fund. Scrivono gli ambientalisti: "È abbastanza impressionante la totale assenza di riflessione sul fatto che in quell’accordo le famose «condizionalità» esistono, sono connesse alla destinazione di quei fondi che andranno usati, scrive la Commissione, conferma il Consiglio e su questo il parlamento Europeo non potrà che rafforzare, su due assi: Green New Deal e rivoluzione digitale. Nient’altro. Inoltre questi mitici eurobond che ci dovrebbero salvare dalla tempesta economica e sociale post-covid verrebbero finanziati da un’imposizione fiscale europea, ancora un po’ nebulosa sul digitale, ma che già indica nella plastic tax e nel tassare le emissioni di carbonio le fonti di approvvigionamento. Su questo, sui media italiani neanche una riga. Anzi abbiamo dovuto leggere qualcuno che reclamava la cancellazione totale (dopo il già assurdo rinvio) della piccola plastic tax italiana. I nostri amici Verdi europei non sono soddisfatti perché giustamente criticano l’accordo in quanto troppo debole sui diritti (in Ungheria e in Polonia) e perché ha cancellato o ridotto importanti programmi, primo tra tutti il Just transition che scende da trenta a dieci miliardi".
Ecco l'intervento completo:
Spesso noi ambientalisti ci siamo lamentati del fatto che il dibattito pubblico nel nostro Paese fosse straordinariamente arretrato rispetto a ciò che avviene negli altri paesi europei sul tema della difesa dell’ambiente, della green economy e dell’economia circolare, ma anche sugli intrecci tra giustizia ambientale e sociale.
Una lamentela che a volte, legittimamente, può essere apparsa persino stucchevole, quasi una lagna; come alibi per giustificare il mancato peso politico di una forza ecologista autonoma. Ma la lettura dei commenti post accordo sul Recovery Fund si incaricano di darci una qualche ragione aggiuntiva. È abbastanza impressionante la totale assenza di riflessione sul fatto che in quell’accordo le famose «condizionalità» esistono, sono connesse alla destinazione di quei fondi che andranno usati, scrive la Commissione, conferma il Consiglio e su questo il parlamento Europeo non potrà che rafforzare, su due assi: Green New Deal e rivoluzione digitale.
Nient’altro. Inoltre questi mitici eurobond che ci dovrebbero salvare dalla tempesta economica e sociale post-covid verrebbero finanziati da un’imposizione fiscale europea, ancora un po’ nebulosa sul digitale, ma che già indica nella plastic tax e nel tassare le emissioni di carbonio le fonti di approvvigionamento. Su questo, sui media italiani neanche una riga. Anzi abbiamo dovuto leggere qualcuno che reclamava la cancellazione totale (dopo il già assurdo rinvio) della piccola plastic tax italiana. I nostri amici Verdi europei non sono soddisfatti perché giustamente criticano l’accordo in quanto troppo debole sui diritti (in Ungheria e in Polonia) e perché ha cancellato o ridotto importanti programmi, primo tra tutti il Just transition che scende da trenta a dieci miliardi.
Questa insoddisfazione vista da qui appare un po’ lunare dal momento che lo sforzo che ci attende in patria per far capire che se pensiamo di utilizzare quei business as usual stavolta oltre a fare i soliti danni ci prendono a sportellate anche a Bruxelles.
C’è davvero uno scarto spaventoso tra quella che è la direzione in cui va l’economia europea alla ricerca di forme di sviluppo più sostenibili sul piano dell’impatto ambientale e del rispetto dei territori, ma anche più responsabili socialmente e in grado di offrire lavoro più stabile e proiettato nel futuro e la stanca retorica italiana – quasi unanime ahimè – su necessità infrastrutture (leggasi strade e autostrade), incentivazione di ogni forma di consumo a prescindere dai suoi impatti sull’uso delle risorse, e magari alle idee (sempre in agguato) di nuovi condoni.
La strada dovrebbe essere invece quella opposta e la questione della plastica ne è un buon esempio. Questo paese è stato all’avanguardia sul tema, prima mettendo al bando i sacchetti, poi le microplastiche nei prodotti cosmetici da risciacquo e i cotton fioc. Con il divieto sui sacchetti abbiamo raggiunto già adesso gli obiettivi che l’Europa si pone solo ora. Un miracolo? No. Una virtuosa alleanza tra cittadini disposti a cambiare stili di vita e un’industria innovativa in grado di realizzare materiale biodegradabile e compostabile di origine vegetale rinnovabile capace di sostituire quello inquinante.
Abbiamo l’occasione di procedere spediti su questa strada costruendo le condizione per un’effettiva riconversione ecologica di un pezzo importante della nostra industria, innanzitutto non rinunciando all’introduzione di una plastic tax che scoraggi l’abuso di quel materiale, incoraggi il riuso, il riciclo e l’utilizzo di materiali alternativi, e nel frattempo, nel recepimento della direttiva europea che riduce e in alcuni casi vieta i manufatti in plastica monouso (a partire dalle stoviglie) cogliere nuovamente l’occasione per favorire la riconversione industriale e l’utilizzo di quei materiali compostabili che possono tranquillamente proseguire il loro ciclo di vita nella raccolta differenziata dell’umido.
La nostra speranza e la battaglia che vogliamo condurre è che il Governo e il parlamento imbocchino la strada giusta, ma è necessario riuscire contemporaneamente a far affermare questi concetti nel dibattito pubblico.